E anche per quest’anno, buon Natale a tutti, evviva evviva!!
(fingendo che qua non sia già il 26 dicembre)
E anche per quest’anno, buon Natale a tutti, evviva evviva!!
In realtà questo scritto doveva intitolarsi “Interventi da Dubai” e avrei dovuto scriverlo mentre attendevo di imbarcarmi sul volo che mi avrebbe riportato in Corea dopo un mese di, mi dicono, vacanze nella ridente Gorizia; solo che in quel benedetto aeroporto, di cui peraltro andrò a scrivervi quest’oggi, la connessione internet funziona bene quanto l’economia mondiale e quindi eccomi a scrivere con diversi giorni di ritardo rispetto al previsto.
Che poi a dirla tutta il ritardo andrebbe quantificato in mesi, ‘ché è a gennaio del 2012 che il signor V. e la signorina M. sua fidanzatina mi chiedevano un’opinione sul celebre scalo arabo, e io in quell’occasione, anziché rispondergli, li rimandavo a leggere il mio blog “tanto lo aggiornerò prestissimo, solo per voi!”. Ma che saranno poi sette mesi! Pensate che tra un po’ è un anno da che son tornato dal Giappone e ancora devo scrivere l’ultima parte del mio “diario di viaggio”.
E insomma, ecco qua, V. ed M.! Questo intervento lo dedico a voi!
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Vado subito al punto così i pigri non devono stare a leggere tutta la pappardella inutile! Per riassumere all’osso la questione, l’aeroporto di Dubai è come i prodotti della Apple: fanno sinceramente schifo ma la gente a forza di sentirsi dire che sono fantastici li adora e dice “wow!”
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E ora, via con la pappardella! In sostanza, l’aeroporto è un grosso budello diviso in tre corridoi, uno centrale bello grosso, luminoso e pieno zeppo di negozi dove i viaggiatori devono spendere i loro soldi, e due laterali, miseri e bigi, dove ci sono gli ingressi ai gate d’imbarco e quattro sedie messe in croce, perché lo scopo ultimo non è quello di offrire un servizio ai viaggiatori, ma costringerli incoraggiarli a fare shopping e ad acquistare i prodotti tipici della tradizione araba, tipo la cioccolata Lindt, le sigarette Marlboro o il whisky Chivas Regal.
Vi facevo cenno all’inizio dell’intervento, ci ritorno: l’aeroporto dispone di una praticissima rete wireless gratuita a disposizione dei viaggiatori, utilissima per chi, come il sottoscritto, viaggia portando con sé laptop e/o smartphone: peccato che, naturalmente per purissimo caso, ci sia campo esclusivamente nel corridoio centrale, non fosse mai che uno, comodamente seduto nei corridoi laterali, volesse passare quelle tre o quattro ore prima dell’imbarco di fronte al suo computer senza consumare denaro nell’area shopping[1].
A parte che poi uno per poter trovare un posto a sedere nei due corridoi laterali deve avere una certa dose fortuna (inteso come “la caratteristica più tipica di Shakira”) visto che, a occhio, c’è una sedia ogni sessanta o settanta viaggiatori (però uno può sempre stravaccarsi sul pavimento, eh!).
Magari chi ha progettato l’aeroporto ha ritenuto inutile installare un congruo numero di posti a sedere, ma, buon dio!, era davvero necessario limitare anche il numero dei gabinetti? Già di loro sono sgradevoli, sia perché gli indiani che fanno le pulizie ti squadrano ogni volta che entri e ti mettono in soggezione, sia perché il livello dell’acqua nella tazza è molto alto e se devi pulirti il sedere dopo aver fatto la pupù rischi ogni volta di strisciare la mano nelle tue stesse deiezioni, sia perché la suddetta acqua è calda e quindi se ci impieghi più di cinque minuti per fare quello che devi fare gli effluvi ti impregnano il corpo e le vesti; ma doversi fare centinaia di metri per trovarne uno e scoprire, quando magari hai una certa urgenza, che la fila arriva fin fuori o che direttamente è chiuso per manutenzione le scatole, obiettivamente, le fa girare.
Per contratto, almeno due lavandini per ogni bagno non funzionano, e di solito ti accorgi che quello rotto è proprio il tuo quando ti sei già insaponato a dovere le mani.
Ci sarebbero anche delle docce e naturalmente sono sprovviste di qualsiasi cosa necessaria per renderle funzionali: asciugamani che magari potevano pure mettere a pagamento, armadietti dove chiudere i propri bagagli per non lasciarli incustoditi, appendini dove lasciare i propri vestiti mentre ci si lava e altre amenità simili.
Magari chi ha progettato l’aeroporto ha ritenuto inutile costruire dei servizi igienici decenti ma, buon dio!, era proprio necessario installare esclusivamente orologi a lancette che, quando non dormi da 24 ore, fai fatica a tenere gli occhi aperti, la tua mente è avvolta dalla nebbia del torpore e non capisci nemmeno bene in che fuso orario ti trovi, rendono pressoché impossibile discernere l’ora e, dunque, il tempo che ti rimane prima della partenza del tuo volo?
Ma parliamo dei gate d’imbarco! Innanzitutto, per accedervi devi sperare di sapere da quale partirà il tuo volo, e già questo non è sempre facile perché “onde migliorare il vostro ambiente aeroportuale” <sic> spesso passano ore prima che il numero del gate venga annunciato. Per esempio a luglio, all’andata, ho aspettato tre ore abbondanti prima di scoprire che mi trovavo esattamente dalla parte opposta rispetto a dove mi sarei dovuto imbarcare. Tenuto anche presente che nell’intera struttura ci sono solo quattro tabelloni per gli orari, due al centro del tubone e gli altri due alle sue estremità, e per controllarli devi ogni volta fare i chilometri mi chiedo in cosa, esattamente, consistano i concetti di “migliore” e di “comodo” così come li intendono i responsabili dell’aeroporto.
Ma ecco, finalmente sai che il tuo gate è il 202! Quando, un’ora e mezza prima della partenza (e tu hai aspettato quattro o cinque ore, perché le coincidenze sono il fiore all’occhiello della Emirates) finalmente apre vai lì, mostri al virile inserviente il passaporto e il biglietto, scendi per le scale mobili (i gate si trovano nel piano inferiore) e… e nulla, trovi una stanza grigiastra dove ci sono tantissime sedie, degli imperdibili quotidiani arabi gratuiti (curiosità: li stampano sulla stessa carta che da noi viene usata per i settimanali e pesano un quintale l’uno), un gabinetto per gli uomini, uno per le donne e uno per i disabili (talvolta possono essere rotti) e 3 (tre) prese della corrente così puoi fantasticare di ricaricare la batteria del cellulare che sta morendo (poi ti rendi conto di essere circondato da centinaia di coreani armati di smartphone e caricabatterie e realizzi la vacuità del tuo pur umile sogno). Se mentre sei lì ti vien sete o fame, ti arrangi, visto che non troverai nemmeno una macchinetta del caffè.
Ma insomma, alla fine di tutto si parte, e addio!, o arrivederci, Dubai! Ma se invece fossi appena arrivato? Il disorientamento! Qua mi vedo costretto a fare un paragone diretto con l’aeroporto di Incheon. Quando arrivo in Corea, quale che sia il punto dove il mio aereo è atterrato, so sempre come mi dovrò muovere una volta sceso: questo perché l’aeroporto è strutturato in maniera volutamente lineare e ripetitiva, con tutti i percorsi aereo-controllo documenti-reimbarco/raccolta bagagli identici fra di loro e nei quali, conseguentemente, è facile memorizzare il percorso da seguire ed è semplice orientarsi.
A Dubai no: se ad Incheon si passa dall’aereo all’edificio esclusivamente per mezzo di finger, a Dubai possono benissimo decidere di farti scendere dall’aereo anche nel bel mezzo del nulla, così ti godi il passaggio aria condizionata dell’aereo→ 35 gradi di notte all’esterno mentre scendi la scaletta→ aria condizionata dell’autobus→ 35 gradi di notte per entrare a piedi nell’aeroporto→ aria condizionata dell’aeroporto: un toccasana per la salute! Se hai la disgrazia di atterrare in queste condizioni, sappi che l’autobus, dotato peraltro di soli otto posti a sedere e con le finestre oscurate per impedire che si guardi all’esterno, può impiegarci anche 25 minuti per compiere il tragitto aereo-aeroporto.
È però una volta arrivati all’aeroporto che parte il disorientamento di cui sopra: perché a seconda di dove si venga fatti entrare nell’edificio, cambiano ogni volta modalità, orientamenti e direzioni dei controlli bagagli e documenti, con una struttura a tratti labirintica e imprevedibile voluta, immagino, “onde migliorare il vostro ambiente aeroportuale”.
Dubai International Airport: Think Different!
[1] Tra parentesi confesso che, in assenza di qualsivoglia tipo di istruzione, ci ho messo due anni per capire come connettersi: in sostanza, il metodo è quello di aprire il browser, andare su google e aspettare che carichi, in sua vece, la pagina ufficiale dell’aeroporto di Dubai.
Aprile, il mese dei bei fiori sbocciati, e dei cuori palpitanti di primaverile gaiezza, è finalmente iniziato, di conseguenza ieri all’ora di pranzo a Seoul nevicava e, visto l’andazzo delle temperature, continuerà probabilmente a farlo ancora per parecchi giorni. Tutto questo non si ricollega assolutamente con il tema di cui vi parlo quest’oggi, vale a dire i matrimoni coreani; tema suggeritomi certo dalla promessa di rosei ciliegi in fiore e odorose camelie, ma anche e più che altro dalla impressionante mole di inviti di nozze che mi sono trovato passivamente a collezionare in questi ultimi tempi.
I miei compagni di dipartimento sembrano infatti aver recentemente individuato nell’atto di sposarsi il loro passatempo prediletto, almeno a giudicare dal non indifferente numero di cerimonie nuziali organizzate tra i mesi di febbraio e di maggio di quest’anno (per ora siamo a cinque, ma il numero potrebbe benissimo essere destinato a salire).
L’attuale foga matrimoniale, in parallelo con il fatto che, in tre anni e mezzo passati in Corea sono stato invitato a più matrimoni che in venticinque-ventisei anni passati in Italia, è comprensibile familiarizzando con l’idea, propria dei coreani (e più in generale delle genti dell’Asia Orientale), che il matrimonio è il rituale che sancisce effettivamente e l’ingresso definitivo nell’età adulta e, soprattutto, il riconoscimento degli sposandi come sani e completi membri della società civile. (corollario: se non sei sposato o almeno non pianifichi di farlo entro i trent’anni, che corrispondono in realtà ai 28/29 anni del computo italiano[1], non sei normale).
***
Ma insomma! Come si sposano, questi coreani?? Quest’oggi parleremo dei preparativi.
Dopo che i fidanzatini hanno deciso di fare il grande passo, la prima cosa da fare è l’incontro ufficiale con i genitori, ‘ché sono loro a dever dare il consenso al matrimonio; ma su questo non posso dire molto poiché, potrete ben immaginarlo, non è qualcosa a cui si può normalmente assistere da esterni.
In compenso ciò che si può liberamente vedere sono i risultati del successivo passo, id est gli scatti ufficiali dal fotografo. Pagando fior fior di quattrini, ogni dolce coppietta va infatti a farsi fotografare in pose imbarazzanti e improbabili (tipo lei seduta su e lui appoggiato con nonchalance ad un gigantesco cuoricione di plastica gigante, in un turbinio di petali e photoshop), alternando negli scatti abiti tradizionali (hanbok) sia vestiti da cerimonia all’occidentale (verosimilmente gli stessi che verranno utilizzati il giorno della cerimonia). Queste foto possono all’occorrenza essere usate per decorare gli inviti, vengono talvolta proiettate durante la cerimonia o, più semplicemente, sono fieramente mostrate agli amici (con l’ausilio di tablet e smartphone, mai visto un album cartaceo).
Gli inviti, cartoline fisicamente non molto dissimili da quelle che si usano anche in Italia, seguono un modello fisso: un breve testo (non più di un paio di frasi) in cui si esalta, con una significativa dose di retorica, l’ammmmmore e la gioia dei novelli sposi; segue il nome degli sposi subordinato a quello dei genitori (ad es., non “Pippo e Gina si sposano”, ma “Pippo secondo figlio di Ugo Rossi e Pina Verdi e Gina prima figlia di Adolfo Marzi e Sandra Moli si sposano”); quindi data e luogo (ovviamente); infine, non possono assolutamente mancare, ed anzi sono l’elemento che occupa la parte più ampia dell’invito, una mappetta fortemente stilizzata che spiega come arrivare al luogo del matrimonio e le informazioni per arrivarvi con i mezzi pubblici.
Già, il luogo del matrimonio! Se in Europa ci si sposa tendenzialmente in chiesa o in comune, le abitudini coreane sono ben diverse: praticamente qualsivoglia spazio in cui riescono ad entrare almeno un centinaio di persone può essere utilizzato per la cerimonia (celebre il caso dei due vietnamiti sposatisi nella saletta riunioni del vecchio dormitorio, demolita solo un paio di mesi dopo), ma le due location più gettonate sono i saloni degli alberghi di lusso e le wedding hall, esercizi commerciali appositi dotati di officianti, varie sale per matrimoni (perché se ne tengono diversi in contemporanea), sala per il rinfresco e tutto ciò che serve. Saloni e wedding hall sono strutturati fondamentalmente nella medesima maniera: tre ingressi, due laterali e uno centrale, un passaggio (di solito rialzato, illuminato e con decorazioni floreali) che dall’ingresso centrale porta al palco con un piccolo altarino, sedie per gli ospiti (poche, così la maggior parte degli invitati deve stare in piedi) e uno o più grandi teli per proiezioni.
Vista l’impressionante quantità di matrimoni organizzati nei week-end (sabato e domenica) se non si prenota la sala con almeno un paio di mesi di anticipo c’è il rischio di doversi sposare ad orari disgraziati, tipo il sabato alle sette di sera, ed è così che mi son bruciato tutto il weekend, mannaggia a te, mia cara amica YJH, e ancora auguri!
Per quanto riguarda i preparativi è tutto (più o meno): nella prossima puntata descriverò dettagliatamente (?) la cerimonia, il rinfresco e tante altre cose belle! Non perdetela!
E abbasso le lezioni alle otto del mattino, sempre!
[1] Del computo dell’età in Corea scriverò, forse, in un’altra occasione.