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Il Maitreya del monte Gwanak e altre importanti esperienze montane

Posted in Asia Orientale, Buddhismo, corea, Gite, Wisdom with tags , , , , , , , , , , , , on 7 luglio 2014 by patatromb

Questa è la storia di un uomo e della sua Ricerca della Via.

Avendo recentemente acquistato la macchinetta fotografica nuova e non avendo nessuna esperienza nel suo utilizzo, ieri l’altro anziché andare in studio a compiere il mio dovere ho deciso di uscire e fare qualche scatto qua e là in giro per il mondo, che in Corea è sinonimo di montagna.

Se per scendere dal dormitorio dell’università alla città vera e propria si prende il bus, ad un certo punto si arriva al Girello della morte, un capolavoro di pianificazione di percorso mezzi pubblici che solo un coreano avrebbe potuto concepire.

Ecco, proprio nei pressi del Girello della morte vi è un grosso cartello stradale che indica la presenza, da qualche parte sulle pendici del monte che sorge a est del dormitorio, di un bassorilievo rappresentante Maitreya in forma di Buddha, con tutto ciò che questo comporta. Io ‘sto cartello l’avevo adocchiato già 5 o 6 anni fa e una volta, credo corresse il 2010, avevo pure provato a cercare dato bassorilievo, poi in quell’occasione l’unica cosa degna di nota che riuscii a trovare fu un colossale scoiattolo coreano intento a fare robe e che potete ammirare nello spettacolare video naturalistico qui sotto.

La fallimentare spedizione di qualche anno fa mi aveva deluso tanto da farmi rinunziare a qualsivoglia ulteriore tentativo di scalata, convinto com’ero che l’esistenza del Maitreya del monte Gwanak altro non fosse che una leggenda metropolitana. Ritrovati tuttavia forza e coraggio grazie alla gagliarda potenza derivante dal mio nuovo acquisto, venerdì alle due del pomeriggio mi son messo in marcia, scendendo a piedi fino al Girello della morte e da lì oltre, passando di fronte alla spettacolare “chiesa” che da anni campeggia fiera e insensata nello header di questo blog, degna metafora di quanto di decadente e triste esiste in questo paese.

Decadenza e fede: la chiesa protestante Chungŭn da qualche parte a Seoul

Decadenza e fede: la chiesa protestante Chungŭn da qualche parte a Seoul

 

Finché la strada era asfaltata vabbè, non ho incontrato grossi ostacoli. Qualche problema è invece sorto quando, finalmente penetrato nel bosco, ho provato a cercare il percorso che porta al bassorilievo. Perché sì, ovviamente esistono dei sentieri battuti, e ci sono anche dei cartelli che, qua e là, dovrebbero indicare la strada per il monumento. Il problema è che le anime pie che si sono occupate di prepararli e posizionarli a) non hanno pensato che i cartelli andrebbero idealmente messi ai bivi/incroci, e non sui rettilinei e b) hanno deciso di realizzarli con una certa creatività, per cui talvolta per arrivare a un determinato luogo bisogna seguire le indicazioni per un altro.

Qua tipo siamo ancora all'inizio del percorso e ci sono delle scale vere

Qua tipo siamo ancora all’inizio del percorso e ci sono delle scale vere

 

Io in ogni caso ho innanzitutto provato a cercare col cellulare il percorso sulle mappe di Naver, il celebre portale internet coreano: qui di sotto vedete il risultato della ricerca: una linea semi-retta in mezzo al niente.

Chiarezza alla coreana 1

Chiarezza alla coreana 1: si parte dalla svastica e si arriva alla A

Chiarezza alla coreana 2:  vai sempre dritto che poi arrivi!

Chiarezza alla coreana 2: vai sempre dritto che poi arrivi!

 

All’inizio ho anche dato retta alla mappina digitale, che mi aveva persuaso dell’esistenza di un’unica, facile via, poi al quarto bivio non segnalato ho lentamente ma inesorabilmente iniziato a metterne in dubbio l’attendibilità, per poi abbandonarla mestamente dopo circa un’ora di scalata disperata e inane. Certo, io magari avrei anche potuto evitare di prendere la via sbagliata ogni volta in cui ciò era possibile allungando a dismisura il percorso, ma questa è un’altra storia.

Dopo un certo punto è tutto così e sfido a non perdersi

Dopo un certo punto è tutto così e sfido a non perdersi (clicca la foto per poter meglio osservare una vecchia scalatrice coreana all’opera)

Stando ai cartelli presenti qua e là lungo il percorso, il bassorilievo si trova a circa 1200 metri dal Girello della morte, che tipo se ci metti una mezz’ora a percorrerli è tanto. Dopo un’ora e venti dalla partenza, che ancora non si intravvedeva nulla che non fossero alberi o rocce, mi sono seduto sconsolato su una pietra, attendendo il passaggio di qualche sant’uomo a cui chiedere indicazioni. Dopo un quarto d’ora abbondante di solitudine è comparso un giovane uomo grondante sudore il quale, sentendosi rivolgere la parola da un uomo bianco, ha innanzitutto mostrato un’espressione scioccata, ha poi dichiarato farfugliando di non aver idea di che cosa stessi parlando, ed è infine fuggito con inusitata celerità lasciandomi solo come l’ultima fetta di salame che nessuno vuole mangiare. Passato qualche altro minuto sono comparse tre signore di una certa età, di cui la più vecchia a piedi nudi, però visto che stavano parlando di suocere che vogliono cacciare il marito di casa e di consorti fedifraghi, non ho avuto cuore di interrompere il loro importante dibattito per richiedere indicazioni.

 

Qua e là ne ho approfittato per scattare qualche foto artistica, tipo qua si vede grosso modo come è fatta una città più grande di Gorizia

Qua e là ne ho approfittato per scattare qualche foto artistica, tipo qua si vede come è fatta una città più grande di Gorizia (cliccaci sopra altrimenti non si capisce nulla)

Alberi e rocce

Alberi e rocce

Una suggestiva immagine megaeffettata

Una suggestiva immagine megaeffettata

Altri palazzoni: i coreani adorano i palazzoni

Altri palazzoni: i coreani adorano i palazzoni

 

Quando oramai iniziavo a disperare, l’illuminazione: vuoi vedere che da qualche parte sulla rete si trovano le spiegazioni scritte su come arrivare a destinazione? E cerca che ti cerca (siano benedetti gli smartphone), ho effettivamente trovato quello che mi serviva sul sito dell’ufficio distrettuale di Gwanak (che è il “quartiere” di Seoul dove sta tutta la roba di cui parlo in queste pagine). Ecco, qui sotto riporto per voi “How to easily find Boncheon-dong Maaemireukbul”, spero apprezziate quanto me lo spirito di internazionalità e la chiarezza esplicativa di cui esso è infuso.

How to easily find qualche cosa!

How to easily find qualche cosa!

 

Anche se nessuno mi crederà, questo sgranatissimo file .jpg mi ha realmente aiutato ad arrivare dalle parti del Buddo (sarebbe forse più corretto dare il merito alle didascalie sotto le fotine, e vi auguro a decifrare ‘sta roba su uno schermo a 4 pollici). Dico “dalle parti di” e non “al” perché le indicazioni sono relativamente chiare solo fino al terzo punto della miniguida: in sostanza seguendole si riesce ad arrivare al campo di lavori forzati “Sangbong Yaksutŏ” (di cui parleremo in un’altra occasione), poi però ci sta scritto “una volta arrivato lì., da quapparte ci sta una certa stradina e se la si piglia si arriva al monumento” (e vai tu a capire cosa ci sta nella terza foto che “mostra” il ‘quapparte’), che son quelle cose che ti fanno dubitare delle capacità intellettive dei coreani.

Qui, da qualche parte!

Qui, da qualche parte!

 

L’unica strada che ho trovato parte giusto dietro a una struttura colonizzata da un gruppo di atletiche nonnine che, scopo ultimo dell’alpinismo in Corea, si stavano allegramente ubriacando di soju e makkŏlli. Convinto di avercela finalmente fatta, mi sono immesso sulla suddetta stradina e ho iniziato a salire, salire, salire: dieci minuti dopo, trovandomi di fronte a una piccola trincea militare e dei misteriosi tubi neri parzialmente nascosti nel terreno, ho realizzato come, evidentemente, non fosse nemmeno quella la strada che stavo cercando. E così retromarcia, non ci resta altro da fare che chiedere alle vecchie ubriache!

Simpatica trincea, metti che un giorno i nord coreani decidono di attaccare il monte Gwanak

Simpatica trincea, metti che un giorno i nord coreani decidono di attaccare il monte Gwanak

 

Eh, appunto le vecchie: mentre tornavo al punto di partenza una di loro, infischiandosene o forse ignara del fatto che mi trovavo a non oltre una quindicina di metri di distanza da lei in posizione sopraelevata e con una visuale perfetta, ha deciso di calarsi le braghe e di liberare la vescica nel bel mezzo della natura: io appena realizzato quanto stava accadendo di fronte ai miei occhi ho immediatamente cercato di volgere altrove lo sguardo ma già so che quei pochi, agghiaccianti istanti in cui mi è toccato vedere quello che ho visto mi perseguiteranno vita natural durante.

Come che sia, effettivamente le eleganti signore sapevano dove si trova il buon Maitreya del monte Gwanak e una di loro, quella meno alticcia, mi ha pure accompagnato lungo una parte del percorso (che già oggi non sarei in grado di ritrovare): e così, dopo solo due ore e venti, ero finalmente di fronte alla tanto agognata opera d’arte. La targa con le informazioni sul Buddha presente in situ è fornita di una traduzione in un inglese sorprendentemente buono, quindi senza che mi dilunghi in descrizioni e robe ve la piazzo qui sotto e via, poi così potete pure indirettamente apprezzare il sottoscritto in essa riflesso, ulteriore incentivo a cliccare l’immagine e ammirarla/mi in tutto il suo/mio splendore.

Bellezza e informazioni utili, tutto in una foto!

Bellezza e informazioni utili, tutto in una sola foto!

Maitreya pigliato di fianco

Maitreya pigliato di fianco (봉천동 마애 미륵불좌상)

Maitreya in tutto il suo splendore, che se ne frega di te e guarda da un'altra parte

Maitreya in tutto il suo splendore, che se ne frega di te e guarda da un’altra parte

 

Un topos della letteratura buddhista vede il monaco pellegrino di turno incontrare, nel bel mezzo di un monte sperduto e disabitato, una figura misteriosa -di solito un anziano o un asceta dall’aspetto bizzarro- che lo guida in un luogo favoloso in cui il Dharma è pienamente realizzato: inutile dire che tale figura altri non è che un bodhisattva in incognito, che appena compiuto il suo dovere, vale a dire rendere manifesta in forma tangibile al pellegrino la validità e verità degli insegnamenti buddhisti, svanisce nel nulla, come fosse nebbia.

Mentre ammiravo il bassorilievo anche io ho provato un’esperienza affine, anche se l’ordine degli eventi e il loro risultato sono stati un po’ differenti. Ad un certo punto, infatti, è comparso dal nulla un signore che ha preso a dirmi cose. Tante cose. A ruota libera, e la saggezza sgorgava copiosa dalle sue labbra, una saggezza propria solo dei bodhisattva. Per mezzo delle sue profonde e oculate parole, egli si è rivelato, nell’ordine, un filosofo di prim’ordine (“a me piacciono le montagne perché sono come la vita, un po’ si va su, un po’ si va giù”), un sociologo d’eccezione (“la Corea è un grande paese perché c’abbiamo il senso di etnicità e dunque siamo un popolo unito!”) e un finissimo analista politico (“[problema X] è colpa dei giapponesi!!1!!1!!”). È anche stato tanto magnanimo da offrirmi metà del suo dolcetto farcito con pastone ipercalorico colloso di fagioli dolci, certo se magari avessi avuto qualcosa da bere forse lo avrei anche apprezzato di più e non avrei rischiato a più riprese di morire per soffocamento da fagioli.

Alcuni pensano che Seoul sia sul mare

Alcuni pensano che Seoul sia sul mare

 

Dopo una mezz’ora abbondante, così com’era comparso, il Portatore di Saggezza decise che era giunto il momento di congedarsi, non prima però di meco condividere i suoi preziosi consigli su come tornare a valle, ché nel frattempo si stava anche facendo sera e magari non era il caso di restare intrappolati nel bosco avvolto dalle tenebre.
“Signore, so che ci dovrebbe essere un sentiero che porta direttamente al dormitorio, giusto?”
“No, non c’è. Devi fare tutta la strada a ritroso fino al Girello della morte, io questa montagna la conosco bene e non esiste proprio una strada che va fino all’università”, che se gli davo retta mi sa che la protezione civile stava ancora a cercarmi, grazie al cielo tempo cinque minuti e ho subito trovato il percorso diretto al dormitorio: un percorso pratico e veloce e che a parte che ad un certo punto mi stavo per maciullare la caviglia sinistra, mi riportò in appena una ventina minuti nel mondo civilizzato, e quindi uscii a riveder la strada.

The end

The end

Amsa-dong: reperti archeologici e casette ricostruite

Posted in Arte, Asia Orientale, corea, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 23 giugno 2013 by patatromb

Il 16 giugno 2013 sono andato al parco archeologico di Amsa-dong (tong) a Seoul, che è dove ci sono i resti di vari accampamenti del periodo neolitico, e ho girato un pregevole filmino che vado ora a sottoporvi.

Prima, però, una piccola introduzione, così capite di cosa stiamo parlando.

Il parco si trova, chi l’avrebbe mai detto, nel quartiere di Amsa-dong, sul confine orientale della città a due passi dalla riva meridionale del fiume Han, e sorge lì ove una volta tanti, tanti anni fa i coreani della preistoria vivevano felicemente nelle loro rudimentali casette di legno e paglia. Il sito venne fortuitamente scoperto nel 1925, quando un acquazzone di quelli che ci sono da queste parti[1] portò via tanta di quella terra da riportare in superficie diversi antichi strati di terreno (risalenti a un periodo che va dal 4400 al 1500 a.C. circa) con dei grossi buchi tondi in mezzo, del diametro di circa 5/6 metri l’uno. Detti buchi (finora ne sono stati scoperti una trentina) sono in realtà le fosse che fungevano da “base” delle abitazioni delle popolazioni neolitiche locali e, comprensibilmente, numerosi manufatti (in particolare vasellame e strumenti in pietra) sono stati ritrovati un po’ ovunque nell’area.

Il parco, a cui si può accedere previo pagamento di biglietto d’ingresso di 500 won, è dotato di diverse attrazioni, tra le quali le più importanti sono un gruppo di nove abitazioni neolitiche ricostruite nella loro forma “originale” così come ipotizzata degli studiosi e la sala esposizioni, divisa in due ali separate, in cui sono troviamo numerosi reperti disseppelliti in loco, alcuni simpaticissimi diorami, una serie di quei già citati “buchi” e tanti, tanti marmocchi fracassoni.

Ma ora bando alle ciance e vediamo un po’ ‘sto filmino!

 

Nel filmato si vedono, nell’ordine, l’ingresso del parco coi vecchi coreani che ascoltano musica per vecchi coreani, la strada che porta alle ricostruzioni delle abitazioni neolitiche, le ricostruzioni delle abitazioni neolitiche, l’interno di una delle ricostruzioni delle abitazioni neolitiche con tanto di ricostruzione di un’allegra famigliola neolitica, un’allegra famigliola contemporanea che mi viene incontro, l’ala A della sala esposizioni, i bambini rumorosi al suo interno e, per finire, un ultimo scorcio dell'”area sperimentale”, dove in teoria i bimbi possono provare a vivere come i primitivi ma in realtà c’erano solo altre ricostruzioni di abitazioni neolitiche, qualche manichino variopinto e tanto, tanto caldo.

Oltre a girare il filmino, ho anche scattato delle fotografie, diamo un’occhiata veloce pure a quelle così poi possiamo tornare a fare qualcosa di utile.

La fermata della metro Amsa, dove dovete scendere per visitare il parco. Se vi piacciono gli hamburger, potete mangiare al Burger King lì davanti, ma non è necessario

La fermata della metro Amsa, dove dovete scendere per visitare il parco. Se vi piacciono gli hamburger, potete mangiare al Burger King lì davanti, ma non è obbligatorio.

I classici palazzoni coreani lungo la strada verso il parco

I classici palazzoni coreani lungo la strada verso il parco

La biglietteria! In realtà nessuno controlla i biglietti all'ingresso, quindi se siete dei balordi senza vergogna potreste provare a entrare senza pagare.

La biglietteria! In realtà nessuno controlla i biglietti all’ingresso, quindi se siete dei balordi senza vergogna potreste provare a entrare senza pagare.

Casette, le stesse che avete già visto nel filmino.

Casette, le stesse che avete già visto nel filmino.

In Corea hanno la mania dei timbrini turistici e, prevedibilmente, ci sono anche qua.

In Corea hanno la mania dei timbrini turistici e, prevedibilmente, ci sono anche qua.

Dentro alla sala esposizioni, ala A

Dentro alla sala esposizioni, ala A

Cosi per fare il fuoco

Cosi per fare il fuoco

Cosi per pescare i pesci (balene, a giudicare dalle dimensioni)

Cosi per pescare i pesci (balene, a giudicare dalle dimensioni)

Cosi per infilarci dentro la roba

Cosi per infilarci dentro la roba

Per capire come si seppellivano i morti all'epoca.

Per capire come si seppellivano i morti all’epoca.

Per far vedere come coltivavano la terra (notate lo scansafatiche stravaccato per terra)

Per far vedere come coltivavano la terra (notate lo scansafatiche stravaccato per terra)

Per far capire come pescavano

Per far capire come pescavano

Immagini in 3D dall'incredibile realismo.

Immagini in 3D dall’incredibile realismo. Si notino in particolare le pose plastiche dei primitivi cacciatori e dei cervi qui ritratti.

Io e un signore coreano addormentato in una posa particolarmente virile.

Io e un signore coreano addormentato in una posa particolarmente virile.

Un simpatico cinghiale impalato. Non preoccupatevi, è solo un modellino!

Un simpatico cinghiale impalato. Non preoccupatevi, è solo un modellino!

Una rivelazione incredibile! Nella Corea del Neolitico gli pterodattili non erano ancora estinti!

Una rivelazione incredibile! Nella Corea del Neolitico gli pterodattili non erano ancora estinti!

——

Se mai voleste passare da queste parti, pigliate la metropolitana e scendete alla fermata Amsa-dong della linea 8[2] e da lì o vi fate una passeggiatona di venti minuti partendo dall’uscita quattro (sempre dritti!) oppure se siete furbi prendete il tassì o il bus (il numero 02) giusto davanti all’uscita 1, così arrivate a destinazione belli freschi che quando come domenica scorsa a Seoul fa caldo camminare per più di cinque minuti non è cosa, a meno che non amiate le ascelle pezzate.

***


[1]In realtà si è trattato di una serie di alluvioni susseguitesi tra il luglio e il settembre del 1925, note con il nome collettivo di Grande alluvione dell’anno Ŭlch’uk (乙丑年大洪水).

[2]Tecnicamente non è una fermata, bensì il capolinea, ma questi sono solo dettagli insignificanti.

Tutti a Ch’ŏrwŏn!

Posted in Arte, Asia Orientale, Buddhismo, corea, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 15 Maggio 2013 by patatromb

Due domeniche fa, era una bella, profumosa giornata primaverile, gli unici passeggeri della corriera diretta verso Ch’ŏrwŏn erano il sottoscritto, il giovane K.Y.W. (noto anche come il ragazzo dagli occhi protrusi) e alcune solitarie ragazzette pensierose. Sorge spontaneo chiedersi perché mai, in una così raidosa giornata, delle fanciulle nel fiore degli anni dovrebbero dirigersi verso un desolato, spoglio e decrepito paesotto del Kangwŏn-to a quattro passi dal confine con la Corea del Nord. ‘Sicuramente seguivano te e il baldo K.Y.W. (noto anche come il ragazzo dagli occhi da cerbiatto)’, avrete probabilmente pensato voi che leggete: tuttavia la risposta più ovvia, ahinoi, non sempre è quella corretta.

Il giovane K.Y.W. a bordo di un'affollata corriera

Il giovane K.Y.W. a bordo di un’affollata corriera

Da quapparte in Corea

Da quapparte in Corea

Come ho già avuto modo di notare in precedenza, Ch’ŏrwŏn è ben vicina al confine con la riottosa sorella socialista della Corea del Sud e tutta la zona che la circonda è conseguentemente (e comprensibilmente) piena zeppa di basi militari, basi militari che a loro volta sono piene zeppe di gagliardi soldati di leva che si addestrano a spezzar le reni agli empi sudditi di Kim Chŏngŭn (=Kim Jong-un)! Prima di partire per il servizio militare (che in queste terre dura ben due anni) alcuni di loro avevano trovato la fidanzatina e, tra questi, i più fortunati erano riusciti a non farsi lasciare al momento della partenza. Le nostre compagne di viaggio, lo avrete a questo punto oramai capito, sono alcune di quelle fidanzatine, donne modello che non solo sono tanto pazienti da attendere un lungo biennio prima di poter riavere indietro il loro principe azzurro (nel frattempo divenuto nella maggior parte dei casi un bestemmiatore tabagista amante dell’alcool), ma che sono anche tanto magnanime da sacrificare il loro fine settimana per andare a trovare nel nulla più assoluto suddetto principe azzurro: ad avercene, di donne così!

Una base militare abilmente mimetizzata nell'ambiente

Una base militare abilmente mimetizzata nell’ambiente

Detto questo, sorgerà spontanea un’altra domanda, vale a dire, cosa ci stavano dunque a fare su quell’autobus il buon Marco e il giovane K.Y.W. (noto anche come il ragazzo dallo sguardo che incanta)? ‘Forse andavano a trovare anche loro dei fidanzatini in servizio di leva’, avrà pensato il lettore più smaliziato, lettore che, tuttavia, mi vedo nuovamente costretto a contraddire.

Dovete sapere che, non molto distante da Ch’ŏrwŏn, sorge il Dop’iansa (倒彼岸寺), monastero buddhista ove è conservata una statua in ferro datata al 865, identificata da tutti gli storici dell’arte coreana[1] come un Vairocana in chigwon’in (智拳印, vajra mudrā in finto sanscrito, una roba complicata che non sto a spiegarvi qui perché sennò non finiamo più, in sostanza si tratta di un Buddha assiso che alza le mani all’altezza del petto pigliandosi l’indice della mano sinistra con tutta la mano destra stretta a pugno).

Voi, ne sono moderatamente certo, questa statua non l’avete mai nemmeno sentita nominare ma vi prego lo stesso di credermi quando vi dico che si tratta di una di quelle opere fondamentali che compaiono in tutti i libri di storia dell’arte coreana. Noi due maschietti, lo avrete a questo punto oramai capito, eravamo diretti verso il Dop’iansa che per inciso è, visto il luogo dimenticato da Dio in cui sorge, uno di quei posti che tutti conoscono ma che nessuno ha mai visitato.

Il glorioso terminal del villaggio di Tongsong, capolinea della corriera

Il glorioso terminal del villaggio di Tongsong, capolinea della corriera

Un pensiero gentile rivolto a tutte le coppiette separate dalla naja

Alle spalle del terminal, un pensiero gentile rivolto a tutte le coppiette separate dalla naja

Il nostro pranzo

Il nostro pranzo

Prima di andare ad ammirare la statua di cui sopra, tuttavia, ne abbiamo approfittato per fare una capatina all’altro monumento di Ch’ŏrwŏn, il Nodongdang-sa (勞動黨舍), cioè l’Ufficio del Partito dei Lavoratori. Con “Partito dei Lavoratori” ci si riferisce ovviamente al Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, ‘ché nel 1946, quando questo edificio venne eretto, qua era tutta terra comunista! Ai tempi  della Guerra di Corea gli ammeregani e i loro alleati sudcoreani si erano convinti che qua dentro ci fosse chissà cosa, concentrando così (con successo) tutta la loro forza per la presa dell’”Ufficio” in questione. Ora è tutto in rovina, colle pareti completamente crivellate di colpi e la scalinata di accesso sbriciolata dai cingoli di un carro armato, e chissà all’epoca quanti morti L.

Il Nodongdang-sa. K.Y.W. si è lamentato che col bel tempo perde tutta l'aura di malvagità che dovrebbe avere

Il Nodongdang-sa. K.Y.W. si è lamentato che col bel tempo perde tutta l’aura di malvagità che dovrebbe avere

Come ben sapete, i coreani (del Sud) tendono a smantellare qualsiasi edificio non gli vada ideologicamente a genio, dunque come mai questo Nodongdang-sa è ancora in piedi? La risposta, stando al giovane K.Y.W., è che da una parte l’edificio viene sfruttato in funzione propagandistica (“guardate! I cattivi comunisti qua dentro facevano cose cattivissime! BRR!”), dall’altra bisogna tenere presente che, fino alla fine degli anni ’80, l’accesso a tutta l’area a nord di Ch’ŏrwŏn City era interdetto ai civili, ergo non c’era né la necessità di, né la manovalanza adatta a demolire l’edificio che, nel frattempo, è stato registrato come bene culturale e quindi resterà qui finché regge.

Tatatatatà! Una colonna che, pur se crivellata di colpi, non si è piegata al nemico!

Tatatatatà! Una colonna che, pur se crivellata di colpi, non si è piegata al nemico!

Uno sguardo dal retro

Uno sguardo dal retro

Ecco cosa succede a salire le scale col carrarmato

Ecco cosa succede a salire le scale col carrarmato

La trafficata strada da e per il Nodongdang-sa

La trafficata strada da e per il Nodongdang-sa

Al Nodongdang-sa ci siamo arrivati nella maniera più comoda e veloce possibile, vale a dire in tassì, mentre da qui al Dop’iansa ce la siamo fatta a piedi (tanto sono solo tre chilometri!). Lungo la strada ci siamo casualmente imbattuti nelle rovine di un altro edificio “storico”, la Chiesa metodista di Ch’ŏrwŏn, fondata del 1936 e andata distrutta nemmeno una ventina di anni dopo, ovviamente ai tempi della solita Guerra di Corea. Io e il giovane K.W.Y. abbiamo approfittato della fortuita scoperta per scattare alcune pregevoli fotografie che potete di seguito ammirare.

Io in una delle mie pose migliori

Io in una delle mie pose migliori

Il giovane K.Y.W. in una delle sue pose migliori

Il giovane K.Y.W. in una delle sue pose migliori

Spettacolare foto con effetto

Spettacolare foto con effetto

Il monumento in tutta la sua imponenza

Il monumento in tutta la sua imponenza

Risaie

Risaie

Ci siamo quasi

Ci siamo quasi

Un’ora dopo, sudati, assetati e sfiancati dall’inaspettatamente afosa aria di queste terre selvagge  delle risaie di Ch’ŏrwŏn, siamo arrivati al Dop’iansa. Oltre al Vairocana in ferro di cui vi ho già parlato, presso il Dop’iansa si trova anche un altro famoso monumento antico, una pagoda il pietra di cui non si sa niente di preciso e che per questo motivo viene ritenuta da tutti coeva alla nostra cara statua (sì, non c’è logica dietro a questa tecnica di datazione). I vari libri se la sbrigano descrivendola come uno dei massimi capolavori nel suo genere, glissando inspiegabilmente sul curioso senso di instabilità che ne emana, ma tant’è. La pagoda è da qualche anno salita alla ribalta (!) perché in essa sono stati avvistati a più riprese (!!) i BODHISATTVA AUREI (!!!), che non ne sapevo niente e all’inizio mi sono tutto eccitato ma poi ho scoperto che in realtà si tratta di una coppia di ranocchi <sic> che di tanto in tanto sbuca da una fessura della pagoda.

Il Dop'iansa. Al momento gli edifici 1, 3 e 13 non esistono

Il Dop’iansa. Al momento gli edifici 1, 3 e 13 non esistono

Ingresso al monastero

Ingresso al monastero

La pagoda del Dop'iansa e una vecchia maledetta che si è infilata nella foto proprio al momento giusto

La pagoda del Dop’iansa e una vecchia maledetta che si è infilata nella foto proprio al momento giusto

La base della pagoda. Da qui quando gli va spuntano i bodhisattva aurei

La base della pagoda. Da qui quando gli va spuntano i bodhisattva aurei

Dopo le foto di rito alla pagoda abbiamo fatto una capatina all’ufficio amministrativo/negozietto e abbiamo chiesto alla signora che vi lavora:

“Dai, ci fai fare le foto alla statua??”

e lei “Ma non si può”.

“E su, guarda che occhioni ha K.Y.W.” e a queste parole, e grazie a quegli occhi, ella infine si sciolse, accordandoci il tanto agognato permesso (in realtà le abbiamo detto altre cose che per motivi di ordine pubblico non posso rivelarvi) (non è vero, le abbiamo semplicemente fatto notare che ci occupiamo di storia dell’arte buddhista e volevamo fare delle foto per motivi di studio) (apro un’ultima parentesi, così, a caso).

Quel giorno la sorte era evidentemente dalla nostra perché non solo abbiamo ottenuto senza particolare fatica il permesso per fotografare la statua (di solito è severamente proibito) ma soprattutto perché, essendo il padiglione in cui essa è normalmente esposta in fase di restauro/ricostruzione, la pregiata icona è stata temporaneamente ricollocata in un piccolo padiglione prefabbricato certo orrido, ma che ci ha permesso di avvicinarla in una maniera che sarebbe stata altrimenti impossibile, e le foto che abbiamo scattato sono lì a testimoniarlo. Peccato che non possiate vederle anche voi, ah!

Il padiglione prefabbricato

Il padiglione prefabbricato

Il nostro caro Vairocana

Il nostro caro Vairocana

Un profilo maestoso

Un profilo maestoso

Poi niente, si è fatta una certa ora, così abbiamo chiamato un tassì, siamo tornati a Ch’ŏrwŏn e da lì nuovamente a Seoul in corriera, e questo è quanto.

Un ultimo saluto!

Un ultimo saluto prima di tornare a casa!

Detta con franchezza, dubito che qualcuno di voi lettori vorrà mai avventurarsi in queste lande sperdute, ma se qualcuno non resistesse alla tentazione e non potesse proprio farne a meno, sappia che il metodo più pratico per farlo consiste nel prendere una corriera o dal Seoul Express Bus Terminal o dal Dong Seoul Bus Terminal e prima o poi si arriva (contate dalle due alle tre ore a tratta a seconda del traffico e una cifra variabile tra i 15000 e i 20000 won). E per questa volta è veramente tutto.


[1]Questa cosa la specifico perché io ho un’idea tutta mia riguardo a quest’opera, ma non è questa la sede adatta per discuterla.

Chŏngwŏl Taeborŭm

Posted in Arte, Asia Orientale, corea, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 27 febbraio 2013 by patatromb

C’è, in questo blog, un intervento del 2009 intitolato “Capodanno” il cui soggetto è il capodanno lunare, una delle principali festività coreane.

C’è, sempre in questo blog, un altro intervento, stavolta del 2012, dal titolo “Sŏllal 2012”, il cui soggetto è nuovamente il capodanno lunare, che dice praticamente le stesse cose di “Capodanno” ma che però è arricchito da alcune memorabili foto del sottoscritto.

Purtroppo per voi quest’anno, nei giorni in cui cadevano i festeggiamenti per l’inizio dell’anno del serpente, mi trovavo in Italia, ragion per cui non ho potuto riscrivere per l’ennesima volta la solita solfa sui coreani che nei giorni di festa si premono come sardine nei treni e nelle corriere per tornare a casa due giorni e bla bla bla quelle robe lì. Sarà per il prossimo Chusŏk.

 (. )( .)

Fortunatamente per voi, tuttavia, sono tornato a Seoul giusto in tempo per assistere alle celebrazioni del (Chŏngwŏl) Taeborŭm, la tradizionale festa per la prima luna piena dell’anno! Un dettaglio del Sŏllal che finora mi era sempre sfuggito è che esso coincide invariabilmente con un giorno di luna nuova: se ne evince pertanto che il Taeborŭm, in quanto giorno di luna piena, cade invariabilmente due settimane dopo il Sŏllal. Dato che il 2013 lunare ha avuto inizio il 10 febbraio, è dunque semplice calcolare che il giorno in cui si è celebrato il Taeborŭm è il 24 dello stesso mese, i.e. domenica scorsa.

Verso la festa!

Verso la festa!

 

Venuto a sapere della cosa domenica ho pertanto fatto la migliore delle cose possibili, vale a dire andare a godermi la festa presso il Namsan hanok maŭl, il villaggio folkloristico nel cuore di Seoul di cui, prometto, parlerò dettagliatamente in uno dei miei prossimi post, ed è una di quelle promesse tipo che è da un anno e mezzo che devo pubblicare l’ultima parte del mio diario di viaggio in Giappone (2011).

Alcuni coreani in attesa che inizi lo spettacolo

Alcuni coreani in attesa che inizi lo spettacolo

Bimbi e corde, per giocare!

Bimbi e corde, un’alchimia perfetta!

 

Ma insomma, cosa si è fatto in quel di Seoul per festeggiare la prima luna nuova dell’anno? Si è ballato, si è cantato, si son fatti tanti giochi divertenti, si son spaccate le noci (un must: al banchetto per spaccare i deliziosi e durissimi frutti secchi c’era una fila da far invidia al Kansong) e soprattutto, al culmine dell’evento, è stato dato fuoco a un grosso pignarul[1] affinché si portasse via tutte le robe dell’anno passato.

Gente che canta!

Gente che canta!

Gente che suona e che balla

Gente che suona e che balla

Gente che spegne pignarul

Gente che spegne pignarul

 

Ecco, in questa sede avrei voluto parlarvi diffusamente di tutte queste straordinarie attività: delle voci da usignolo delle tre cantanti di p’ansori, dei leggiadri passi di danza dei suonatori di samul nori, di come, fedelmente alla proverbiale fretta dei coreani, il pignarul è stato spento a forza dai pompieri dopo non più di sette minuti dalla sua accensione; tuttavia, nell’istante in cui il Signore degli Aquiloni si è manifestato in tutta la sua maestosa bellezza, tutto il resto ha perso di interesse, quasi svanendo dal mio campo visivo: d’altronde, Lui era di fronte a me.

Il suo elegante caschetto, le sue irresistibili natiche sode e rotonde, il suo sobrio e signorile marsupio giallo, la sua voce persuasiva e melodiosa, i suoi ineguagliabili aquiloni, il suadente fascino virile di chi, con un semplice sorriso, sa di poter ottenere tutto ciò che desidera: sono solo alcuni degli innumerevoli elementi che hanno contribuito a fare di Lui il protagonista indiscusso della giornata, ma che dico!, dell’anno intero!

Ogni altra parola a riguardo sarebbe però superflua, ‘ché il linguaggio umano non può esprimere adeguatamente la natura del Signore degli Aquiloni: per questo, dunque, lascerò che siano le immagini a parlare per me, dandovi appuntamento alla prossima volta, se mai riuscirò a riprendermi dalla Visione.

Il Signore degli Aquiloni

Il Signore degli Aquiloni

Fascino, eleganza, regalità

Fascino, eleganza, regalità

L'apice dell'umanità

L’apice dell’umanità

 

 (. )( .)

P.S. Nel frattempo, mentre ieri in Italia procedeva lo sfoglio delle schede elettorali e sui social network la gente stava a lagnarsi perché è tornato Berlusconi o a vantarsi di aver votato Grillo, in Corea del Sud si insediava finalmente il nuovo Capo dello Stato:

Mrs. President!


[1] Termine che, analogamente al “piastrare” da me menzionato molti interventi or sono, fa riferimento alle belle tradizioni del Nord-est italiano: per informazioni, cercate su google.

C’ho i flash

Posted in Fumetti, Giappone, Gite, Pubblica utilità, Wisdom with tags , , , , , , , , , , , , on 22 settembre 2012 by patatromb

Miei cari lettori, mie care lettrici,

vi sarete sicuramente accorti che, recentemente, non ho avuto occasione di aggiornare questo mio modesto blog. Ma non temete, non vi ho né scordati, né tantomeno abbandonati: semplicemente, imprescindibili e improrogabili impegni accademici hanno assorbito e il mio tempo, e le mie forze, sia fisiche che, ed è questo il punto di partenza dell’intervento odierno, psicologiche.

Perché dovete sapere che, dopo due settimane circa passate ininterrottamente davanti al computer a scrivere cose che nessuno vuole leggere, la mia mente ha iniziato a vacillare e ha preso a mescolare il presente con il passato, le informazioni utili con quelle superflue, e così via.

Ad esempio, mentre stavo vergando la mia critica agli studi biografici dedicati ai monaci di epoca Koryŏ, mi è tornato all’improvviso in mente un pasto consumato, una domenica di maggio del 2006, presso il McDonald’s di un piccolo centro commerciale dalle parti di Rokujizō, quartiere nella estrema periferia sud-orientale di Kyōto degno di nota in quanto non c’è assolutamente nulla da vedere: e di colpo erano davanti a me un pasto, un centro commerciale e un intero quartiere che fino all’altro giorno avevo completamente rimosso dalla mia mente (o almeno, ero convinto di averlo fatto). Ora rimembro con precisione persino quello che avevo mangiato e ricordo anche che ero andato da quelle parti per visitare un negozio di libri usati dove ho comprato il fumetto del coniglio col naso lungo e un ciddì dei Polysics, però non ho la minima idea di come mai sapessi che quel negozio esistesse; come che sia, ve lo faccio vedere.

 

 

 

La stessa sera ho avuto un secondo flash dal passato, questo ben più interessante? In sostanza, credo fosse il 2004 o il 2005, e stavamo dando l’esame chiamato “abilità informatiche 2”, un esame tappabuchi (mi pare valesse 3 punti di credito, ma forse erano di meno) dove gli studenti si raggruppavano nella sala computer dell’università e il professore diceva loro: “scrivete col computer una frase a vostra scelta in giapponese”. Se lo facevi, e bastava scrivere cose tipo “mi piacciono i gatti” o “mi chiamo Gino”, avevi passato l’esame. Se non l’avete mai fatto, e immagino che molti di voi non ne abbiano effettivamente mai avuto occasione, sappiate solo che per scrivere in giapponese con il computer basta impostare la tastiera su giapponese e poi digitare le lettere della parola così come si pronuncia (ad esempio, per scrivere inu いぬ, cane, si digita i, n, e infine u. Se proprio si vuole, poi si può selezionare il carattere cinese corrispondente premendo la barra spaziatrice, ed ecco che いぬ diventa 犬). Insomma, non bisogna essere dei dottorandi in informatica per riuscirci.

Ebbene, nel flash mi si sono chiaramente parati davanti tutti i bocciati all’esame. Perché sì, parecchi non sono riusciti a passarlo. Una parte degli studenti, infatti, non ricordando che è possibile impostare la tastiera su “giapponese” ha scritto la frase sì in giapponese, ma utilizzando l’alfabeto latino. I miei preferiti, però, sono gli studenti universitari che, alla richiesta “scrivete una frase” rispondevano scrivendo una singola parola; e mi ricordo ancora con commozione il professore che, paziente, gli ripeteva “scrivete una frase!” e quelli cambiavano la parola, e lui, stavolta un po’ meno paziente, “finché non scrivete una frase non vi faccio uscire da qui!” e quelli giù con un’altra parola ancora.

E mentre disteso nel mio caldo lettuccio rivivevo questi bei momenti per lungo tempo dimenticati, ho ripensato alle associazioni studentesche, alle loro proteste per gli esami di ingresso e i corsi a numero chiuso e alle loro belle parole sul diritto allo studio, e mi son chiesto se diritto allo studio significa far studiare all’università gente che, dopo quasi venti anni passati sui libri, non conosce la differenza tra una parola e una frase. Poi, un secondo prima di addormentarmi, ho avuto un flash nel quale ho ricordato di avere un blog, ed eccomi nuovamente qua tutto per voi!

Interventi su Dubai

Posted in Gite, Pubblica utilità, Wisdom with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 27 agosto 2012 by patatromb

In realtà questo scritto doveva intitolarsi “Interventi da Dubai” e avrei dovuto scriverlo mentre attendevo di imbarcarmi sul volo che mi avrebbe riportato in Corea dopo un mese di, mi dicono, vacanze nella ridente Gorizia; solo che in quel benedetto aeroporto, di cui peraltro andrò a scrivervi quest’oggi, la connessione internet funziona bene quanto l’economia mondiale e quindi eccomi a scrivere con diversi giorni di ritardo rispetto al previsto.

Che poi a dirla tutta il ritardo andrebbe quantificato in mesi, ‘ché è a gennaio del 2012 che il signor V. e la signorina M. sua fidanzatina mi chiedevano un’opinione sul celebre scalo arabo, e io in quell’occasione, anziché rispondergli, li rimandavo a leggere il mio blog “tanto lo aggiornerò prestissimo, solo per voi!”. Ma che saranno poi sette mesi! Pensate che tra un po’ è un  anno da che son tornato dal Giappone e ancora devo scrivere l’ultima parte del mio “diario di viaggio”.

E insomma, ecco qua, V. ed M.! Questo intervento lo dedico a voi!

 (. )( .)

Vado subito al punto così i pigri non devono stare a leggere tutta la pappardella inutile! Per riassumere all’osso la questione, l’aeroporto di Dubai è come i prodotti della Apple: fanno sinceramente schifo ma la gente a forza di sentirsi dire che sono fantastici li adora e dice “wow!”

  (. )( .)

E ora, via con la pappardella! In sostanza, l’aeroporto è un grosso budello diviso in tre corridoi, uno centrale bello grosso, luminoso e pieno zeppo di negozi dove i viaggiatori devono spendere i loro soldi, e due laterali, miseri e bigi, dove ci sono gli ingressi ai gate d’imbarco e quattro sedie messe in croce, perché lo scopo ultimo non è quello di offrire un servizio ai viaggiatori, ma costringerli incoraggiarli a fare shopping e ad acquistare i prodotti tipici della tradizione araba, tipo la cioccolata Lindt, le sigarette Marlboro o il whisky Chivas Regal.

L’ingresso del corridoio centrale

 

Vi facevo cenno all’inizio dell’intervento, ci ritorno: l’aeroporto dispone di una praticissima rete wireless gratuita a disposizione dei viaggiatori, utilissima per chi, come il sottoscritto, viaggia portando con sé laptop e/o smartphone: peccato che, naturalmente per purissimo caso, ci sia campo esclusivamente nel corridoio centrale, non fosse mai che uno, comodamente seduto nei corridoi laterali, volesse passare quelle tre o quattro ore prima dell’imbarco di fronte al suo computer senza consumare denaro nell’area shopping[1].

A parte che poi uno per poter trovare un posto a sedere nei due corridoi laterali deve avere una certa dose fortuna (inteso come “la caratteristica più tipica di Shakira”) visto che, a occhio, c’è una sedia ogni sessanta o settanta viaggiatori (però uno può sempre stravaccarsi sul pavimento, eh!).

Vivacità ed allegria nei corridoi laterali: alcuni viaggiatori soddisfatti comodamente seduti sul pavimento in attesa del loro volo!

 

Magari chi ha progettato l’aeroporto ha ritenuto inutile installare un congruo numero di posti a sedere, ma, buon dio!, era davvero necessario limitare anche il numero dei gabinetti? Già di loro sono sgradevoli, sia perché gli indiani che fanno le pulizie ti squadrano ogni volta che entri e ti mettono in soggezione, sia perché il livello dell’acqua nella tazza è molto alto e se devi pulirti il sedere dopo aver fatto la pupù rischi ogni volta di strisciare la mano nelle tue stesse deiezioni, sia perché la suddetta acqua è calda e quindi se ci impieghi più di cinque minuti per fare quello che devi fare gli effluvi ti impregnano il corpo e le vesti; ma doversi fare centinaia di metri per trovarne uno e scoprire, quando magari hai una certa urgenza, che la fila arriva fin fuori o che direttamente è chiuso per manutenzione le scatole, obiettivamente, le fa girare.

Per contratto, almeno due lavandini per ogni bagno non funzionano, e di solito ti accorgi che quello rotto è proprio il tuo quando ti sei già insaponato a dovere le mani.

Ci sarebbero anche delle docce e naturalmente sono sprovviste di qualsiasi cosa necessaria per renderle funzionali: asciugamani che magari potevano pure mettere a pagamento, armadietti dove chiudere i propri bagagli per non lasciarli incustoditi, appendini dove lasciare i propri vestiti mentre ci si lava e altre amenità simili.

Gabinetti a Dubai: il water e un misterioso bocchettone con cui i cinesi spesso si lavano i piedi (sul serio)

Gabinetti a Dubai: il water e il portarotolo, un oggetto dal design raffinato

 

Magari chi ha progettato l’aeroporto ha ritenuto inutile costruire dei servizi igienici decenti ma, buon dio!, era proprio necessario installare esclusivamente orologi a lancette che, quando non dormi da 24 ore, fai fatica a tenere gli occhi aperti, la tua mente è avvolta dalla nebbia del torpore e non capisci nemmeno bene in che fuso orario ti trovi, rendono pressoché impossibile discernere l’ora e, dunque, il tempo che ti rimane prima della partenza del tuo volo?

Uno dei corridoi esterni. Rolex, la prossima volta display elettronico, mi raccomando!

 

Ma parliamo dei gate d’imbarco! Innanzitutto, per accedervi devi sperare di sapere da quale partirà il tuo volo, e già questo non è sempre facile perché “onde migliorare il vostro ambiente aeroportuale” <sic> spesso passano ore prima che il numero del gate venga annunciato. Per esempio a luglio, all’andata, ho aspettato tre ore abbondanti prima di scoprire che mi trovavo esattamente dalla parte opposta rispetto a dove mi sarei dovuto imbarcare. Tenuto anche presente che nell’intera struttura ci sono solo quattro tabelloni per gli orari, due al centro del tubone e gli altri due alle sue estremità, e per controllarli devi ogni volta fare i chilometri mi chiedo in cosa, esattamente, consistano i concetti di “migliore” e di “comodo” così come li intendono i responsabili dell’aeroporto.

Ma ecco, finalmente sai che il tuo gate è il 202! Quando, un’ora e mezza prima della partenza (e tu hai aspettato quattro o cinque ore, perché le coincidenze sono il fiore all’occhiello della Emirates) finalmente apre vai lì, mostri al virile inserviente il passaporto e il biglietto, scendi per le scale mobili (i gate si trovano nel piano inferiore) e… e nulla, trovi una stanza grigiastra dove ci sono tantissime sedie, degli imperdibili quotidiani arabi gratuiti (curiosità: li stampano sulla stessa carta che da noi viene usata per i settimanali e pesano un quintale l’uno), un gabinetto per gli uomini, uno per le donne e uno per i disabili (talvolta possono essere rotti) e 3 (tre) prese della corrente così puoi fantasticare di ricaricare la batteria del cellulare che sta morendo (poi ti rendi conto di essere circondato da centinaia di coreani armati di smartphone e caricabatterie e realizzi la vacuità del tuo pur umile sogno). Se mentre sei lì ti vien sete o fame, ti arrangi, visto che non troverai nemmeno una macchinetta del caffè.

“We limit announcements to improve your airport environment”
“Thank you”

 

Ma insomma, alla fine di tutto si parte, e addio!, o arrivederci, Dubai! Ma se invece fossi appena arrivato? Il disorientamento! Qua mi vedo costretto a fare un paragone diretto con l’aeroporto di Incheon. Quando arrivo in Corea, quale che sia il punto dove il mio aereo è atterrato, so sempre come mi dovrò muovere una volta sceso: questo perché l’aeroporto è strutturato in maniera volutamente lineare e ripetitiva, con tutti i percorsi aereo-controllo documenti-reimbarco/raccolta bagagli identici fra di loro e nei quali, conseguentemente, è facile memorizzare il percorso da seguire ed è semplice orientarsi.

A Dubai no: se ad Incheon si passa dall’aereo all’edificio esclusivamente per mezzo di finger, a Dubai possono benissimo decidere di farti scendere dall’aereo anche nel bel mezzo del nulla, così ti godi il passaggio aria condizionata dell’aereo→ 35 gradi di notte all’esterno mentre scendi la scaletta→ aria condizionata dell’autobus→ 35 gradi di notte per entrare a piedi nell’aeroporto→ aria condizionata dell’aeroporto: un toccasana per la salute! Se hai la disgrazia di atterrare in queste condizioni, sappi che l’autobus, dotato peraltro di soli otto posti a sedere e con le finestre oscurate per impedire che si guardi all’esterno, può impiegarci anche 25 minuti per compiere il tragitto aereo-aeroporto.

È però una volta arrivati all’aeroporto che parte il disorientamento di cui sopra: perché a seconda di dove si venga fatti entrare nell’edificio, cambiano ogni volta modalità, orientamenti e direzioni dei controlli bagagli e documenti, con una struttura a tratti labirintica e imprevedibile voluta, immagino, “onde migliorare il vostro ambiente aeroportuale”.

Dubai International Airport: Think Different!


[1] Tra parentesi confesso che, in assenza di qualsivoglia tipo di istruzione, ci ho messo due anni per capire come connettersi: in sostanza, il metodo è quello di aprire il browser, andare su google e aspettare che carichi, in sua vece, la pagina ufficiale dell’aeroporto di Dubai.

Dei bei sogni

Posted in Asia Orientale, Gite, Musica with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 9 luglio 2012 by patatromb

Qualche tempo fa ho fatto un sogno bellissimo che non ricordo assolutamente come iniziava, ma ad un certo punto c’erano i Sick Of It All in Corea per un verosimilissimo tour di cinque giorni e io una sera stavo a chiacchierare amenamente con il cantante, il bassista e una misteriosa ragazza coreana che a quanto pare era l’organizzatrice dei concerti questione. In realtà parlavamo io e il cantante, mentre gli altri due erano muti come una tomba, per quel che mi ricordo.

Io nel 2011 col chitarrista dei Sick Of It All, che nel sogno non c’era.

Come che sia, stavamo andando da qualche parte, o forse eravamo in fuga, a bordo un treno che costeggiava una montagna. Ahinoi, non tutti i dettagli del sogno bellissimo si sono impressi indelebilmente nella mia memoria e dunque le ragioni e la meta del nostro viaggio rimarranno per sempre ignote; ma almeno rimembro con cristallina precisione che, alla mia domanda “dove suonate domani?” il bel cantante somigliante al fidanzato di mia sorella rispondeva qualcosa tipo “ancora non lo sappiamo, però stanotte dormiamo in un campeggio” e a me pareva una risposta più che convincente. Ad un certo punto mi diceva anche che per loro (inteso come “Sick Of It All” in senso collettivo) non esistono cose impossibili, e io gli credevo.

Qualche istante dopo, mentre il nostro veloce motoscafo fendeva le onde di un non meglio precisato specchio d’acqua, il cantante, sapendo che sono italiano, mi chiedeva se sono mai stato a Venezia, al che io coglievo la palla al balzo per farmelo amico rivelandogli che non solo ci sono stato, ma ci ho addirittura vissuto per parecchi anni, quindi se mai dovessero capitare da quelle parti sanno a chi rivolgersi. Spero di avergli lasciato il mio contatto.

Poi ci siamo divisi in due gruppi, io con il bassista da una parte e il cantante con la fanciulla misteriosa dall’altra, salendo a bordo di due cosi tipo tappeti volanti che planavano leggeri e veloci nel cielo notturno. Ricordo che era molto divertente, ma ad un certo punto il mio preziosissimo berretto da baseball, che non ho mai posseduto o indossato in vita mia poiché detesto i berretti più di ogni altra cosa ma nel sogno mi era assai caro, mi volava via a causa dell’elevata velocità con cui ci spostavamo. Un atletico gesto del bassista, congiunto a una manovra acrobatica del coso planante mi permetteva fortunatamente di recuperare il prezioso oggetto, facendomi tornare il sorriso. Grazie, Craig, non dimenticherò quello che hai fatto per me!

Pochi istanti dopo gli altri due ci avvertivano che anche il cantante aveva perso qualcosa di importante, così io e il bassista ci separavamo perché lui fletteva i muscoli si lanciava nel vuoto per recuperare la cosa.

Quel giorno era scoppiata la riva

Vola che ti vola, arrivavo infine alla casa della mia padrona di casa a Venezia, potete vederla nella foto qui sopra (è l’edificio con le tre porticine) ma dovete sapere che stando al mio sogno essa è un maniero gotico alto almeno una trentina di metri, ergo il miglior luogo ove atterrare. Approcciavo il piano più alto dell’edifico con una pregevole manovra circolare che mi permetteva di osservare all’interno dell’edificio, che vi ho riprodotto nello schema qua sotto, così non perdo tempo a descriverlo.

Per il disegno tecnico, non c’è programma migliore di paint

Benché fossimo in pieno giorno, la Signora stava dormendo nella sua stanza, che vedete indicata dalla lettera A. Io, conscio che farmi scoprire in casa dalla signora avrebbe comportato la mia fine, decidevo di atterrare in C, un vano vuoto con una porta apparentemente sbarrata dall’interno, dalla quale in un modo o nell’altro, lo sapevo, sarei arrivato all’uscita e, dunque, alla salvezza. Per i curiosoni, B è un corridoio in cui si  trovano un comodino con del the poggiato sopra e una finestra aperta sulla stanza colla porta sbarrata.

Riuscivo ad atterrare perfettamente, purtroppo controllando se era possibile aprire la porta sbarrata facevo un gran fracasso che svegliava la Signora, la quale iniziava a girare per la casa cercando la fonte di tale rumore dirigendosi proprio verso il luogo in cui mi trovavo io. Terrorizzato, mi nascondevo nell’angolo dietro la porta sperando di non essere scoperto e a quel punto mi sono svegliato tutto sudato, col cuore a mille e colla vescica gonfissima che erano le sei del mattino e avevo dormito sì e no tre orette scarse.

Grazie al cielo in quei momenti di terrore puro ho trovato la forza e la lucidità di buttare giù qualche appunto riguardante il sogno, poi ho fatto la pipì e ho cercato di riprendere sonno; quando mi sono risvegliato un paio d’ore dopo, ovviamente, non ricordavo più niente. Rileggendo i miei appunti ho però realizzato che, negli ultimi tempi, mi stavo strapazzando un po’ troppo e che sarebbe stato meglio iniziare a condurre una vita un po’ più regolare. Cosa che ho anche fatto, così a posto dei Sick Of It All ho iniziato a sognare la mia fidanzatina che mi implora piagnucolosa di comprarle un Big Mac e, sinceramente, non so se ci abbia guadagnato o meno.

Un documento esclusivo: gli appunti manoscritti sui quali il presente intervento è basato

Gita in Giappone – Parte 6: un giorno ad Arashiyama

Posted in Arte, Asia Orientale, Giappone, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , on 15 febbraio 2012 by patatromb

E finalmente riprende, dopo una miriade di mesi, la cronaca della mia oramai non più recentissima gita in Giappone!

Qualora non aveste letto le puntate precedenti (male!), ecco a voi un breve riassunto di quanto scritto fino ad ora:

 

Gita in Giappone – Prologo, dove sebbene sia un prologo narro di come dopo il viaggio ho incontrato un Gundam e ho assistito a una partita di calcio.

Gita in Giappone – Parte 1, dove presento gli alberghi più splendidi di tutta Ōsaka.

Gita in Giappone – Parte 2: al Murōji, dove racconto di come sono stato scacciato da dei contadini intenti a preparare una sagra.

Gita in Giappone – Parte 3: la bella Nara, dove sbaglio tutti i trasferimenti ma arrivo lo stesso dappertutto e alla fine mangio un meronpan.

Gita in Giappone – Parte 4: il Daigoji, il Tōji e il panino del Mos, dove bevo del caffè al the verde, mangio un delizioso panino e, nel tempo che mi avanza, visito alcuni luoghi registrati come Patrimonio dell’Umanità.

Gita in Giappone – Parte 5: lo Shitennōji e altre amenità di Ōsaka, dove visito Disneyland e acquisto il più bel fumetto della storia.

 

Questo per quanto riguarda quello che già sapete: ma per il resto? Prima di ripartire per Seoul=casa, mi avanzava infatti ancora un giorno; un giorno da spendere in quel di Arashiyama, l’area nord ovest di Kyōto che i miei lettori più attenti dovrebbero aver già sentito nominare qualche tempo fa. La zona in questione è tra le più belle di Kyōto, sia dal punto di vista naturale che da quello artistico-culturale, ma soprattutto è il luogo in cui, quando il tempo è bello, i giapponesi si ammassano come polli in un allevamento intensivo e buttano il proprio denaro in souvenir e cibo venduto a prezzi improponibili (tipo che alle bancarelle chiedono 500 yen per sei takoyaki[1]).

Qua si intravvedono alcune delle bancherelle dai prezzi assurdi. Stando a quanto mi racconta la mia amica, hanno stretti rapporti con la yakuza (paura!)

Ci sono molti modi per arrivarci: in autobus, col trenino, con l’automobile, in bicicletta, a piedi, con il teletrasporto e via dicendo. Occhio se ci andate con l’autobus, perché l’area dove si può girare con l’abbonamento e il biglietto giornaliero finisce, guarda caso, proprio prima della fermata principale di Arashiyama: i giapponesi mica sono fessi e se possono fare qualcosa per spillare più soldi al viaggiatore, non ci pensano su due volte.

Questi atletici ragazzi giapponesi non si sono fatti spillare soldi per arrivare in zona

Io personalmente sono arrivato in zona col trenino (linea Hanykū Arashiyama 阪急嵐山線: per arrivare al cuore dell’area si scende al capolinea e, dirigendosi verso nord, si attraversa il ponte sul fiume Ōi), ché da Ōsaka è il mezzo più comodo. O meglio, noi personalmente, visto che mi ero fatto convincere a partire non da solo ma assieme alla mia ospite giapponese e il suo fidanzatino cinese. “Da quelle parti abita anche un mio amico, potremmo incontrarci e mangiare tutti assieme!”

Questa decisione non è stata priva di conseguenze: è sbalorditivo constatare quanto poco gliene freghi ai giovani asiatici dei luoghi di interesse storico-artistico e culturale. Per questa ragione, il Tenryūji (天龍寺), che nei miei piani doveva essere la prima delle tre mete previste per quel giorno, l’ho visto solo da fuori (e meno male che l’avevo già visitato nel 2006). Qualche giretto nei sub-templi del monastero però me li sono fatti, sebbene per la maggior parte siano di interesse scarso-nullo.

Hankyu Arashiyama, la stazione graziosa

Panoramica sul lungofiume (?) di Arashiyama

Io ben pettinato mentre mangio una crocca

All'ingresso del Tenryūji

id.

Il giardino del Tenryūji in una rara foto di repertorio

Essendosi nel frattempo fatto mezzogiorno, ci era venuta fame. Vagando alla ricerca di un posto dove mangiare a prezzi umani siamo capitati nel celeberrimo boschetto di bambù di Arashiyama, dove scorrazzano giulivi (?) gli schiavi del risciò e dove si trovano il cimitero associato al Tenryūji e il Nonomiya Jinja (野宮神社), il santuario shintoista presso il quale, in epoca Heian, le principesse imperiali scelte per servire al santuario di Ise erano tenute a passare un periodo di purificazione, e vorrei vedere se riuscirebbero a purificarsi anche al giorno d’oggi, con la mandria di umani che passa quotidianamente da quelle parti.

Uno dei tanti sub-templi del Tenryūji

Un altro dei tanti sub-templi del Tenryūji

Gente a spasso

Il succitato cimitero

 

La seconda, nonché la principale, meta programmata era il Seiryōji (清涼寺). Sulla carta il Seiryōji è vicinissimo al succitato Tenryūji e dunque, su mia proposta, ci siamo andati a piedi: ma sulla carta anche il Saidaiji era vicinissimo al Tōshōdaiji, eppure chi ha letto la parte 3 di questa cronaca sa bene come era andata a finire in quell’occasione.

Ora, sebbene la zona circostante il Tenryūji (il cuore di Arashiyama) sia zeppa di ristoranti dai prezzi stravaganti, ho constatato con sorpresa che nel resto dell’area sono del tutto assenti non solo ristoranti, ma persino supermercati e convenience store (e mi chiedo come la gente del quartiere faccia per vivere). Come risultato, al Seiryōji siamo arrivati che era già l’una e mezza, con le gambette tremolanti e con le pance che parevano per il vigore con cui protestavano black bloc greci.

Quando le speranze di trovare ristoro erano ormai perdute, il miracolo! Proprio nella strada che fronteggia la Porta dei Re Benevoli (Niōmon 仁王門) del Seiryōji si è infatti materializzato un ristorantuzzo in cui, malgrado la posizione di assoluto monopolio di cui il locale gode, non chiedono l’equivalente 15 euro per un piatto di spaghetti in brodo; e poco importa se abbiamo dovuto aspettare mezz’ora prima di ottenere un posto a sedere, nelle condizioni in cui eravamo saremmo stati felici pure se ci avessero servito zuppa di muco fredda.

L'ingresso del Seiryōji visto dall'ingresso del ristorante

Potenti mezzi a disposizione della religione

Il sorriso sincero di chi è candidato sindaco!

E così, quando erano già passate le due e si era finalmente satolli, ci siamo diretti verso l’ingresso del Seiryōji: se volete conoscere il seguito delle mie vicende, continuate a seguire il fantastico “Interventi da Seoul”, ‘ché pure stavolta mi sono dilungato più del previsto ed è ora di fare la nanna.


[1] Altrove il prezzo si aggira attorno ai 300 yen.

La prima statua del Buddha – Pt.2

Posted in Arte, Asia Orientale, Buddhismo, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , on 20 gennaio 2012 by patatromb

Prima delle vacanze ci eravamo lasciati con il buon Chōgen che, a Kaifeng, decideva di finanziare impegnando tutti i suoi averi una copia di quella che, a quanto gli avevano detto, era la prima statua del Buddha. Ebbene, il suo proposito va a buon fine e, nel 985, la scultura è finalmente ultimata; il nostro caro monaco può così finalmente mettersi in cammino per tornarsene a casa e ivi fondare un monastero centrato sulla sua nuova statua. L’idea di Chōgen era, in effetti, quella di creare un luogo di culto espressamente dedicato al Buddha storico Śākyamuni (nel Giappone dell’epoca iniziava a prendere prepotentemente piede l’amidismo che a Chōgen, figlio dell’ambiente tradizionalista/conservatore del Tōdaiji, non è che andasse proprio a genio) il cui nome, Seiryōji (清涼寺), avrebbe ripreso quello del Qingliangsi (清涼寺), un importante monastero del monte Wutai particolarmente caro al Nostro.

Solo che le cose non vanno esattamente come lui sperava e, per parecchi anni (precisamente dal 987, anno in cui il buon monaco riesce finalmente a rimettere piede in terra natia, al 1022, sei anni dopo la sua morte) la scultura rimane parcheggiata presso il Rendaiji (蓮台寺), un monastero sotto il diretto controllo dello stato sito non lontano dal Palazzo Imperiale. Nel 1022, finalmente, i discepoli dell’ormai defunto Chōgen convincono l’imperatore (o chi per lui) a farsi restituire la scultura, piazzano l’immagine in questione nella sala principale di un piccolo tempio privato chiamato Seikaji (棲霞寺) e cambiano il nome di quest’ultimo in Seiryōji. Sotto questo nome il monastero diventerà, in periodo Heian, uno dei principali centri religiosi dell’area di Saga-Arashiyama.

Il Buddha del Seiryōji

Il Seiryōji engi (清涼寺縁起), cronaca ‘ufficiale’ del monastero datata al 1515, offre una versione un po’ differente della storia del nostro Buddha in legno di sandalo, nel senso che, stando a questo documento, l’immagine del Seiryōji non sarebbe la copia fatta creare da Chōgen, bensì l’originale “indiano”!! Com’è possibile? L’Engi ci racconta che, una volta ultimata, la copia viene temporaneamente posta accanto a quella originale; quest’ultima, vogliosa di andare in Giappone (come la capisco!) convince l’altra a scambiarsi di posto nottetempo, tanto sono uguali e nessuno se ne accorgerà! Detto fatto, le due statue si sostituiscono di ruolo e i cinesi, ignari di tutto, si trovano da un giorno all’altro a venerare a loro insaputa una semplice copia della preziosissima immagine del Buddha!!
[Non solo la statua è furbacchiona, ma ha anche un cuore d’oro: un altro documento ci spiega infatti che, quando il babbo di Kumārajiva (nella sua fuga verso Kucha) se la prendeva ogni giorno sulle spalle per trasportarla, di notte era lei che pigliava su il monaco per fare prima ad arrivare a destinazione! Ma stiamo divagando…!]
E insomma, per un sacco di tempo quelli del Seiryōji convincono sé stessi e i fedeli che sono loro a conservare e offrire protezione alla statua di Udayāna. E va detto che i loro sforzi incontrano un certo successo: non solo per secoli si continuò a creare copie di questa immagine (se vi ricordate, ne avevamo incontrata una al Saidaiji di Nara) ma, a tutt’oggi, il monastero è noto più con il nome di Shakadō (釈迦堂, Sala di Śākyamuni) che non con quello ufficiale, con la statua del Buddha che viene a significare l’intero spazio sacro.

Poi nel 1954 la scultura viene aperta per esaminare gli oggetti in essa contenuti (perché le sculture buddhiste, almeno in Asia orientale, contengono quasi sempre degli oggetti, di cui vi parlerò un’altra volta) e nell’occasione si scopre un documento che, se da un lato conferma che quella che ancora oggi è conservata nell’incantevole monastero di Kyōto è effettivamente l’immagine creata in Cina su richiesta di Chōgen, dall’altra fa a pezzi tutta la bella storia dei Buddha che si scambiano di posto e conseguenze varie.
La scoperta di questo documento, peraltro, non impedisce al monastero di esporre a tutt’oggi, nello stesso padiglione dove è possibile ammirare la nostra (bella) scultura, un simpaticissimo dipinto in cui ne è raccontata a mo’ di fumetto tutta la storia, dalla sua creazione fino al suo arrivo in Giappone, con tanto di vignetta in cui lei e la copia gemella si scambiano nottetempo di posto passeggiando amabilmente nella sala in cui sono alloggiate. In ogni caso, di questo e delle altre cose che è possibile incontrare al Seiryōji parlerò nell’ultima (?) parte della serie “Gita in Giappone”, che in origine doveva essere questo intervento, poi mi sono un attimo lasciato prendere la mano e pazienza, magari la prossima sarà la volta buona!

Quattro vedute veneziane

Posted in Arte, Gite, Notizie dall'Italia, Senza categoria with tags , , , , , , , , , , , , , , , , on 13 gennaio 2012 by patatromb

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Tornare a Venezia è sempre un piacere.