Archivio per fatica

Tutti a Ch’ŏrwŏn!

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Due domeniche fa, era una bella, profumosa giornata primaverile, gli unici passeggeri della corriera diretta verso Ch’ŏrwŏn erano il sottoscritto, il giovane K.Y.W. (noto anche come il ragazzo dagli occhi protrusi) e alcune solitarie ragazzette pensierose. Sorge spontaneo chiedersi perché mai, in una così raidosa giornata, delle fanciulle nel fiore degli anni dovrebbero dirigersi verso un desolato, spoglio e decrepito paesotto del Kangwŏn-to a quattro passi dal confine con la Corea del Nord. ‘Sicuramente seguivano te e il baldo K.Y.W. (noto anche come il ragazzo dagli occhi da cerbiatto)’, avrete probabilmente pensato voi che leggete: tuttavia la risposta più ovvia, ahinoi, non sempre è quella corretta.

Il giovane K.Y.W. a bordo di un'affollata corriera

Il giovane K.Y.W. a bordo di un’affollata corriera

Da quapparte in Corea

Da quapparte in Corea

Come ho già avuto modo di notare in precedenza, Ch’ŏrwŏn è ben vicina al confine con la riottosa sorella socialista della Corea del Sud e tutta la zona che la circonda è conseguentemente (e comprensibilmente) piena zeppa di basi militari, basi militari che a loro volta sono piene zeppe di gagliardi soldati di leva che si addestrano a spezzar le reni agli empi sudditi di Kim Chŏngŭn (=Kim Jong-un)! Prima di partire per il servizio militare (che in queste terre dura ben due anni) alcuni di loro avevano trovato la fidanzatina e, tra questi, i più fortunati erano riusciti a non farsi lasciare al momento della partenza. Le nostre compagne di viaggio, lo avrete a questo punto oramai capito, sono alcune di quelle fidanzatine, donne modello che non solo sono tanto pazienti da attendere un lungo biennio prima di poter riavere indietro il loro principe azzurro (nel frattempo divenuto nella maggior parte dei casi un bestemmiatore tabagista amante dell’alcool), ma che sono anche tanto magnanime da sacrificare il loro fine settimana per andare a trovare nel nulla più assoluto suddetto principe azzurro: ad avercene, di donne così!

Una base militare abilmente mimetizzata nell'ambiente

Una base militare abilmente mimetizzata nell’ambiente

Detto questo, sorgerà spontanea un’altra domanda, vale a dire, cosa ci stavano dunque a fare su quell’autobus il buon Marco e il giovane K.Y.W. (noto anche come il ragazzo dallo sguardo che incanta)? ‘Forse andavano a trovare anche loro dei fidanzatini in servizio di leva’, avrà pensato il lettore più smaliziato, lettore che, tuttavia, mi vedo nuovamente costretto a contraddire.

Dovete sapere che, non molto distante da Ch’ŏrwŏn, sorge il Dop’iansa (倒彼岸寺), monastero buddhista ove è conservata una statua in ferro datata al 865, identificata da tutti gli storici dell’arte coreana[1] come un Vairocana in chigwon’in (智拳印, vajra mudrā in finto sanscrito, una roba complicata che non sto a spiegarvi qui perché sennò non finiamo più, in sostanza si tratta di un Buddha assiso che alza le mani all’altezza del petto pigliandosi l’indice della mano sinistra con tutta la mano destra stretta a pugno).

Voi, ne sono moderatamente certo, questa statua non l’avete mai nemmeno sentita nominare ma vi prego lo stesso di credermi quando vi dico che si tratta di una di quelle opere fondamentali che compaiono in tutti i libri di storia dell’arte coreana. Noi due maschietti, lo avrete a questo punto oramai capito, eravamo diretti verso il Dop’iansa che per inciso è, visto il luogo dimenticato da Dio in cui sorge, uno di quei posti che tutti conoscono ma che nessuno ha mai visitato.

Il glorioso terminal del villaggio di Tongsong, capolinea della corriera

Il glorioso terminal del villaggio di Tongsong, capolinea della corriera

Un pensiero gentile rivolto a tutte le coppiette separate dalla naja

Alle spalle del terminal, un pensiero gentile rivolto a tutte le coppiette separate dalla naja

Il nostro pranzo

Il nostro pranzo

Prima di andare ad ammirare la statua di cui sopra, tuttavia, ne abbiamo approfittato per fare una capatina all’altro monumento di Ch’ŏrwŏn, il Nodongdang-sa (勞動黨舍), cioè l’Ufficio del Partito dei Lavoratori. Con “Partito dei Lavoratori” ci si riferisce ovviamente al Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, ‘ché nel 1946, quando questo edificio venne eretto, qua era tutta terra comunista! Ai tempi  della Guerra di Corea gli ammeregani e i loro alleati sudcoreani si erano convinti che qua dentro ci fosse chissà cosa, concentrando così (con successo) tutta la loro forza per la presa dell’”Ufficio” in questione. Ora è tutto in rovina, colle pareti completamente crivellate di colpi e la scalinata di accesso sbriciolata dai cingoli di un carro armato, e chissà all’epoca quanti morti L.

Il Nodongdang-sa. K.Y.W. si è lamentato che col bel tempo perde tutta l'aura di malvagità che dovrebbe avere

Il Nodongdang-sa. K.Y.W. si è lamentato che col bel tempo perde tutta l’aura di malvagità che dovrebbe avere

Come ben sapete, i coreani (del Sud) tendono a smantellare qualsiasi edificio non gli vada ideologicamente a genio, dunque come mai questo Nodongdang-sa è ancora in piedi? La risposta, stando al giovane K.Y.W., è che da una parte l’edificio viene sfruttato in funzione propagandistica (“guardate! I cattivi comunisti qua dentro facevano cose cattivissime! BRR!”), dall’altra bisogna tenere presente che, fino alla fine degli anni ’80, l’accesso a tutta l’area a nord di Ch’ŏrwŏn City era interdetto ai civili, ergo non c’era né la necessità di, né la manovalanza adatta a demolire l’edificio che, nel frattempo, è stato registrato come bene culturale e quindi resterà qui finché regge.

Tatatatatà! Una colonna che, pur se crivellata di colpi, non si è piegata al nemico!

Tatatatatà! Una colonna che, pur se crivellata di colpi, non si è piegata al nemico!

Uno sguardo dal retro

Uno sguardo dal retro

Ecco cosa succede a salire le scale col carrarmato

Ecco cosa succede a salire le scale col carrarmato

La trafficata strada da e per il Nodongdang-sa

La trafficata strada da e per il Nodongdang-sa

Al Nodongdang-sa ci siamo arrivati nella maniera più comoda e veloce possibile, vale a dire in tassì, mentre da qui al Dop’iansa ce la siamo fatta a piedi (tanto sono solo tre chilometri!). Lungo la strada ci siamo casualmente imbattuti nelle rovine di un altro edificio “storico”, la Chiesa metodista di Ch’ŏrwŏn, fondata del 1936 e andata distrutta nemmeno una ventina di anni dopo, ovviamente ai tempi della solita Guerra di Corea. Io e il giovane K.W.Y. abbiamo approfittato della fortuita scoperta per scattare alcune pregevoli fotografie che potete di seguito ammirare.

Io in una delle mie pose migliori

Io in una delle mie pose migliori

Il giovane K.Y.W. in una delle sue pose migliori

Il giovane K.Y.W. in una delle sue pose migliori

Spettacolare foto con effetto

Spettacolare foto con effetto

Il monumento in tutta la sua imponenza

Il monumento in tutta la sua imponenza

Risaie

Risaie

Ci siamo quasi

Ci siamo quasi

Un’ora dopo, sudati, assetati e sfiancati dall’inaspettatamente afosa aria di queste terre selvagge  delle risaie di Ch’ŏrwŏn, siamo arrivati al Dop’iansa. Oltre al Vairocana in ferro di cui vi ho già parlato, presso il Dop’iansa si trova anche un altro famoso monumento antico, una pagoda il pietra di cui non si sa niente di preciso e che per questo motivo viene ritenuta da tutti coeva alla nostra cara statua (sì, non c’è logica dietro a questa tecnica di datazione). I vari libri se la sbrigano descrivendola come uno dei massimi capolavori nel suo genere, glissando inspiegabilmente sul curioso senso di instabilità che ne emana, ma tant’è. La pagoda è da qualche anno salita alla ribalta (!) perché in essa sono stati avvistati a più riprese (!!) i BODHISATTVA AUREI (!!!), che non ne sapevo niente e all’inizio mi sono tutto eccitato ma poi ho scoperto che in realtà si tratta di una coppia di ranocchi <sic> che di tanto in tanto sbuca da una fessura della pagoda.

Il Dop'iansa. Al momento gli edifici 1, 3 e 13 non esistono

Il Dop’iansa. Al momento gli edifici 1, 3 e 13 non esistono

Ingresso al monastero

Ingresso al monastero

La pagoda del Dop'iansa e una vecchia maledetta che si è infilata nella foto proprio al momento giusto

La pagoda del Dop’iansa e una vecchia maledetta che si è infilata nella foto proprio al momento giusto

La base della pagoda. Da qui quando gli va spuntano i bodhisattva aurei

La base della pagoda. Da qui quando gli va spuntano i bodhisattva aurei

Dopo le foto di rito alla pagoda abbiamo fatto una capatina all’ufficio amministrativo/negozietto e abbiamo chiesto alla signora che vi lavora:

“Dai, ci fai fare le foto alla statua??”

e lei “Ma non si può”.

“E su, guarda che occhioni ha K.Y.W.” e a queste parole, e grazie a quegli occhi, ella infine si sciolse, accordandoci il tanto agognato permesso (in realtà le abbiamo detto altre cose che per motivi di ordine pubblico non posso rivelarvi) (non è vero, le abbiamo semplicemente fatto notare che ci occupiamo di storia dell’arte buddhista e volevamo fare delle foto per motivi di studio) (apro un’ultima parentesi, così, a caso).

Quel giorno la sorte era evidentemente dalla nostra perché non solo abbiamo ottenuto senza particolare fatica il permesso per fotografare la statua (di solito è severamente proibito) ma soprattutto perché, essendo il padiglione in cui essa è normalmente esposta in fase di restauro/ricostruzione, la pregiata icona è stata temporaneamente ricollocata in un piccolo padiglione prefabbricato certo orrido, ma che ci ha permesso di avvicinarla in una maniera che sarebbe stata altrimenti impossibile, e le foto che abbiamo scattato sono lì a testimoniarlo. Peccato che non possiate vederle anche voi, ah!

Il padiglione prefabbricato

Il padiglione prefabbricato

Il nostro caro Vairocana

Il nostro caro Vairocana

Un profilo maestoso

Un profilo maestoso

Poi niente, si è fatta una certa ora, così abbiamo chiamato un tassì, siamo tornati a Ch’ŏrwŏn e da lì nuovamente a Seoul in corriera, e questo è quanto.

Un ultimo saluto!

Un ultimo saluto prima di tornare a casa!

Detta con franchezza, dubito che qualcuno di voi lettori vorrà mai avventurarsi in queste lande sperdute, ma se qualcuno non resistesse alla tentazione e non potesse proprio farne a meno, sappia che il metodo più pratico per farlo consiste nel prendere una corriera o dal Seoul Express Bus Terminal o dal Dong Seoul Bus Terminal e prima o poi si arriva (contate dalle due alle tre ore a tratta a seconda del traffico e una cifra variabile tra i 15000 e i 20000 won). E per questa volta è veramente tutto.


[1]Questa cosa la specifico perché io ho un’idea tutta mia riguardo a quest’opera, ma non è questa la sede adatta per discuterla.

Gita in Giappone – Parte 6: un giorno ad Arashiyama

Posted in Arte, Asia Orientale, Giappone, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , on 15 febbraio 2012 by patatromb

E finalmente riprende, dopo una miriade di mesi, la cronaca della mia oramai non più recentissima gita in Giappone!

Qualora non aveste letto le puntate precedenti (male!), ecco a voi un breve riassunto di quanto scritto fino ad ora:

 

Gita in Giappone – Prologo, dove sebbene sia un prologo narro di come dopo il viaggio ho incontrato un Gundam e ho assistito a una partita di calcio.

Gita in Giappone – Parte 1, dove presento gli alberghi più splendidi di tutta Ōsaka.

Gita in Giappone – Parte 2: al Murōji, dove racconto di come sono stato scacciato da dei contadini intenti a preparare una sagra.

Gita in Giappone – Parte 3: la bella Nara, dove sbaglio tutti i trasferimenti ma arrivo lo stesso dappertutto e alla fine mangio un meronpan.

Gita in Giappone – Parte 4: il Daigoji, il Tōji e il panino del Mos, dove bevo del caffè al the verde, mangio un delizioso panino e, nel tempo che mi avanza, visito alcuni luoghi registrati come Patrimonio dell’Umanità.

Gita in Giappone – Parte 5: lo Shitennōji e altre amenità di Ōsaka, dove visito Disneyland e acquisto il più bel fumetto della storia.

 

Questo per quanto riguarda quello che già sapete: ma per il resto? Prima di ripartire per Seoul=casa, mi avanzava infatti ancora un giorno; un giorno da spendere in quel di Arashiyama, l’area nord ovest di Kyōto che i miei lettori più attenti dovrebbero aver già sentito nominare qualche tempo fa. La zona in questione è tra le più belle di Kyōto, sia dal punto di vista naturale che da quello artistico-culturale, ma soprattutto è il luogo in cui, quando il tempo è bello, i giapponesi si ammassano come polli in un allevamento intensivo e buttano il proprio denaro in souvenir e cibo venduto a prezzi improponibili (tipo che alle bancarelle chiedono 500 yen per sei takoyaki[1]).

Qua si intravvedono alcune delle bancherelle dai prezzi assurdi. Stando a quanto mi racconta la mia amica, hanno stretti rapporti con la yakuza (paura!)

Ci sono molti modi per arrivarci: in autobus, col trenino, con l’automobile, in bicicletta, a piedi, con il teletrasporto e via dicendo. Occhio se ci andate con l’autobus, perché l’area dove si può girare con l’abbonamento e il biglietto giornaliero finisce, guarda caso, proprio prima della fermata principale di Arashiyama: i giapponesi mica sono fessi e se possono fare qualcosa per spillare più soldi al viaggiatore, non ci pensano su due volte.

Questi atletici ragazzi giapponesi non si sono fatti spillare soldi per arrivare in zona

Io personalmente sono arrivato in zona col trenino (linea Hanykū Arashiyama 阪急嵐山線: per arrivare al cuore dell’area si scende al capolinea e, dirigendosi verso nord, si attraversa il ponte sul fiume Ōi), ché da Ōsaka è il mezzo più comodo. O meglio, noi personalmente, visto che mi ero fatto convincere a partire non da solo ma assieme alla mia ospite giapponese e il suo fidanzatino cinese. “Da quelle parti abita anche un mio amico, potremmo incontrarci e mangiare tutti assieme!”

Questa decisione non è stata priva di conseguenze: è sbalorditivo constatare quanto poco gliene freghi ai giovani asiatici dei luoghi di interesse storico-artistico e culturale. Per questa ragione, il Tenryūji (天龍寺), che nei miei piani doveva essere la prima delle tre mete previste per quel giorno, l’ho visto solo da fuori (e meno male che l’avevo già visitato nel 2006). Qualche giretto nei sub-templi del monastero però me li sono fatti, sebbene per la maggior parte siano di interesse scarso-nullo.

Hankyu Arashiyama, la stazione graziosa

Panoramica sul lungofiume (?) di Arashiyama

Io ben pettinato mentre mangio una crocca

All'ingresso del Tenryūji

id.

Il giardino del Tenryūji in una rara foto di repertorio

Essendosi nel frattempo fatto mezzogiorno, ci era venuta fame. Vagando alla ricerca di un posto dove mangiare a prezzi umani siamo capitati nel celeberrimo boschetto di bambù di Arashiyama, dove scorrazzano giulivi (?) gli schiavi del risciò e dove si trovano il cimitero associato al Tenryūji e il Nonomiya Jinja (野宮神社), il santuario shintoista presso il quale, in epoca Heian, le principesse imperiali scelte per servire al santuario di Ise erano tenute a passare un periodo di purificazione, e vorrei vedere se riuscirebbero a purificarsi anche al giorno d’oggi, con la mandria di umani che passa quotidianamente da quelle parti.

Uno dei tanti sub-templi del Tenryūji

Un altro dei tanti sub-templi del Tenryūji

Gente a spasso

Il succitato cimitero

 

La seconda, nonché la principale, meta programmata era il Seiryōji (清涼寺). Sulla carta il Seiryōji è vicinissimo al succitato Tenryūji e dunque, su mia proposta, ci siamo andati a piedi: ma sulla carta anche il Saidaiji era vicinissimo al Tōshōdaiji, eppure chi ha letto la parte 3 di questa cronaca sa bene come era andata a finire in quell’occasione.

Ora, sebbene la zona circostante il Tenryūji (il cuore di Arashiyama) sia zeppa di ristoranti dai prezzi stravaganti, ho constatato con sorpresa che nel resto dell’area sono del tutto assenti non solo ristoranti, ma persino supermercati e convenience store (e mi chiedo come la gente del quartiere faccia per vivere). Come risultato, al Seiryōji siamo arrivati che era già l’una e mezza, con le gambette tremolanti e con le pance che parevano per il vigore con cui protestavano black bloc greci.

Quando le speranze di trovare ristoro erano ormai perdute, il miracolo! Proprio nella strada che fronteggia la Porta dei Re Benevoli (Niōmon 仁王門) del Seiryōji si è infatti materializzato un ristorantuzzo in cui, malgrado la posizione di assoluto monopolio di cui il locale gode, non chiedono l’equivalente 15 euro per un piatto di spaghetti in brodo; e poco importa se abbiamo dovuto aspettare mezz’ora prima di ottenere un posto a sedere, nelle condizioni in cui eravamo saremmo stati felici pure se ci avessero servito zuppa di muco fredda.

L'ingresso del Seiryōji visto dall'ingresso del ristorante

Potenti mezzi a disposizione della religione

Il sorriso sincero di chi è candidato sindaco!

E così, quando erano già passate le due e si era finalmente satolli, ci siamo diretti verso l’ingresso del Seiryōji: se volete conoscere il seguito delle mie vicende, continuate a seguire il fantastico “Interventi da Seoul”, ‘ché pure stavolta mi sono dilungato più del previsto ed è ora di fare la nanna.


[1] Altrove il prezzo si aggira attorno ai 300 yen.

Gita in Giappone – Parte 2: al Murōji

Posted in Arte, Asia Orientale, Giappone, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 27 novembre 2011 by patatromb

Al Murōji (室生寺) sognavo di andarci fin dai tempi della triennale, quando il professor Calza ci aveva parlato di questo piccolo monastero di periodo Heian abbarbicato tra le montagne nel sud della Prefettura di Nara, famoso soprattutto per la sua pagoda (la più piccola, tra quelle lignee, di tutto il Giappone) e per le sculture del nono e decimo secolo custodite nella sua Sala d’oro (kondō 金堂). Avevo pensato di andarci già nel 2006, quando stavo a Kyōto, ma i non meno di cinque trasferimenti tra treni e autobus e le tre ore abbondanti di sola andata mi avevano al tempo dissuaso dal tentare l’impresa.

Ci era andata, in macchina, una mia malvagia lettrice, senza di me ma con la sua famiglia giapponese, lasciando il mio cuore spezzato dal dolore e dall’invidia; ma stiamo divagando!

Insomma, approfittando del fatto che Osaka è, rispetto a Kyōto, più vicina al villaggio di Murō, lungo il corso del fiume Murō che scorre presso il monte Murō dove si trova il Murōji, stavolta ho inserito a forza il grazioso monastero nel mio programma di viaggio!

Tanto ho detto e tanto ho fatto che, con in mano la discreta monografia di Sherry Fowler dedicata al sito in questione, domenica 13 ho pigliato il treno e sono partito alla volta di…!

La stazione!

Murōguchi-Ōno, questo è il nome della stazione dove bisogna scendere. Si tratta di una fermata della Linea Osaka della Kintetsu persa da qualche parte tra le montagne e il nulla dello Honshū, a 57 km e a un’ora e mezza di viaggio (con il treno espresso) dalla stazione di Osaka Uehonmachi. Il prezzo per il biglietto del treno, 860 yen (8.30€), è tutto sommato onesto, considerato che la tratta è piuttosto lunga.

Quello che è un po’ meno onesto, direi, è il prezzo dell’autobus che dalla stazione ferroviaria porta al Murōji. Per arrivare a quest’ultimo bisogna infatti percorrere una stradina di montagna di circa sei chilometri, un percorso non impossibile da fare a piedi ma che comunque richiede tempo ed energie. Ora, nel villaggio non esiste veramente niente al di fuori del Murōji e quindi capisco che gli abitanti per sopravvivere sfruttino i turisti sparando prezzi improbabili per souvenir e cibarie (le uniche fonti di reddito della zona), però 420 yen (4€ tondi tondi) per dieci minuti scarsi di viaggio in un aromatico autobus dell’anteguerra mi sembrano un po’ esagerati.

Però ammetto che i volantini che pubblicizzano tombe all’interno dell’autobus donano al mezzo quel tocco di eleganza per il quale val la pena di mettere mano al portafoglio.

I potenti mezzi a servizio del Murōji

La mia prima meta una volta sceso dall’autobus è stata il Ryūketsu jinja (龍穴神社), il Santuario dei buchi del drago (sic!), a circa un chilometro verso sud rispetto al Murōji. Secondo le leggende del posto, nelle numerosissime caverne del monte Murō vive da lunghissimo tempo un drago, ai cui poteri benefici (nella tradizione asiatica, il drago è una divinità acquatica, quindi oggetto di particolare venerazione in quanto protettore dagli incendi e portatore di pioggia e quindi di fertilità) è probabilmente legata la fondazione del Murōji stesso, ‘ché i documenti storici lo indicano come sede di numerosi rituali buddhisti legati alla fertilità dei campi e, più in generale, alla pioggia.

Il santuario di cui stiamo parlando, originariamente controllato dal Murōji, è dedicato appunto al culto del suddetto drago e si occupa di gestire le grotte, off-limits per fedeli e turisti, dove il drago risiederebbe. Una (e una soltanto) delle grotte può in realtà essere vista, ma è nascosta da qualche parte lungo una stradina sterrata dietro al santuario e non avevo il tempo materiale per andare a scovarla.

Ryūketsu jinja

Qui si possono lasciare soldini

Dopo la breve visita al santuario mi sono spostato, finalmente, al Murōji. In biglietto di ingresso è di 600 yen, nella media. La peculiarità architettonica del monastero è che, essendo costruito in mezzo alle montagne, è venuta a mancare la possibilità di disporre con regolarità i vari padiglioni che ne formano il garan. È così che, entrati da una Porta dei Re Compassionevoli (Niōmon 仁王門) curiosamente rivolta verso sud-ovest, ci troviamo di fronte a una ripida scalinata che, salendo verso nord, porta a un spiazzo su cui si affacciano il Padiglione di Maitreya (Mirokudō 弥勒堂, XIII sec.) e la succitata Sala d’Oro, la cui sezione più antica risale al nono secolo.

L'ingresso: Niōmon

La Sala d'oro fa capolino dalla scalinata

Dentro è più o meno così (immagine rubata da internet 'ché non si possono fare foto)

Mirokudō visto dal Kondō

Il gruppo scultoreo più famoso/interessante del monastero si trova in questa sala: si tratta di una curiosa pentade lignea formata da due Buddha e tre bodhisattva (datati per lo più al IX e X secolo) che non trova paralleli da nessuna parte[1], frutto di secoli di spostamenti di sculture e fluttuazioni dottrinali.

Per entrare nel kondō era richiesta un’”offerta” di altri 400 yen, giusto per ricordarci che in tutto il mondo religione è sinonimo di danaro. E vabbé, la Sala non sempre è accessibile ai turisti, ci può stare. (Mi hanno pure regalato una straordinaria sacchetta in plastica con le immagini dei Dodici Generali Celesti, ma cosa si può volere di più!)

Superato lo spiazzo e salita un’altra gradinata, ci troviamo di fronte allo Hondō (本堂) o Sala Principale, con la sua notevole coppia di mandala, utilizzati nelle cerimonie di ordinazione Shingon[2], e un Nyōirin Kannon dell’XI secolo come icona centrale. Di fianco a questo padiglione, l’ennesima scalinata ci porta alla pagoda, principale attrazione del Murōji, cui accennavo sopra. Già arcinota almeno fin dagli anni ‘50, è divenuta particolarmente popolare dopo che, nel 1994, un tifone l’ha massacrata brutalmente e si è riusciti a restaurarla più per fortuna che per altro. Il commento del dottorando in storia dell’arte: “è piccola”.

Lo Hondō è piuttosto grosso

La pagoduzza compatta e, sullo sfondo, il tetto dello Hondō

Da qui in poi inizia il delirio: oltre la pagoda parte la via che porta al punto più alto e più “santo” del monastero, l’Okunoin (奥の院), dove si trovano la Sala del ritratto (Mieidō 御影堂) di Kūkai, primo patriarca Shingon giapponese, la Sala per le tavolette mortuarie e un paio di strutture secondarie correlate. Quando dico “punto più alto”, intendo che per arrivarci bisogna farsi una scarpinata di 400 gradini ripidissimi e pericolosissimi, del tipo che se perdi l’equilibrio anche solo per un istante hai sicuramente diritto a uno spazio tutto tuo nella Sala delle tavolette mortuarie di cui sopra.

Peraltro va detto che il problema non è tanto salire quanto scendere e se io, che sono comunque relativamente giovane e in buona salute, alla fine della discesa per la stanchezza mi sono trovato con le gambe che mi tremavano come foglie durante una bufera, mi chiedo come abbiano fatto a discendere incolumi certe nonnine che si sono avventurate lungo quella via poco dopo di me.

L'inizio della salita

Qua si intravede la fine del percorso

La sala del ritratto

Alla fine, attorno le tre, ho lasciato il Murōji. Con l’autobus sono tornato verso la stazione, dove ho scattato qualche foto al Miroku rupestre dello Ōnodera (大野寺), un piccolo monastero a cinque minuti di passeggiata dalla stazione stessa. Quindi ho preso il treno diretto verso l’ultima meta programmata per quel giorno.

Il Miroku rupestre dello Ōnodera, in una foto particolarmente sfocata

Spostandosi di una fermata verso est (altri 120 yen offerti alla Kintetsu) troviamo un villaggio chiamato Sanbonmatsu, del quale si può affermare quanto segue: se a Murō domina il niente[3], a Sanbonmatsu non c’è nemmeno quello. Sennonché gli studiosi hanno stabilito che, con ogni probabilità, una statua di Jizō conservata nel solo tempio buddhista del villaggio faceva originariamente parte della triade (oggi diventata pentade) del kondō del Murōji. In sostanza, una cosa da vedere, ma facendo in fretta ‘ché alle 16.30 le strutture buddhiste giapponesi chiudono.

Per tempo ci sarei pure arrivato, ma una volta sul posto mi sono trovato di fronte a uno spettacolo invero inatteso. Il piazzale antistante il tempio e il tempio stesso, una tristissima costruzione moderna in legno e cemento, era affollato di gente che faceva cose. Non avendo idea di dove stesse la statua che cercavo, ho provato a chiedere informazioni a uno degli astanti, che mi ha risposto: “ah, oggi non si può vedere, stiamo facendo i preparativi per la festa del villaggio”. Poi mi ha voltato le spalle ed è tornato a fare cose. Né, ahimé, è stato di aiuto sfoderare un perfetto sguardo da cerbiatto graziosetto di fronte alle signore che cucinavano: certo, mi hanno sorriso, ma era un sorriso che significava “vattene”.

Non mi è dunque rimasta altra scelta che fare un giro per l’area metropolitana di Sanbonmatsu, scattare qualche foto che conferma l’immagine del Giappone come il paese tecnologico per eccellenza e, infine, sedermi a riposare di fronte al monumento più bello della storia dell’umanità, la Palla Inutile di Sanbonmatsu (non chiedetemi cosa sia, non c’era nessuna targa o spiegazione scritta di sorta).

L'imponente stazione di Sanbonmatsu

Architettura contemporanea a Sanbonmatsu

Esempi dell'influenza di Andō Tadao sull'architettura giapponese

La Palla Inutile di Sanbonmatsu

Verso le cinque, constatato che non c’era più nulla da fare e che si stava facendo buio, ho pigliato il treno e, tempo due ore, ero a Osaka. Però, dato che sono il più intelligente, anziché tornarmene in albergo ho avuto la bella trovata di farmi un giretto per Nanba, la zona dello shopping e dei divertimenti di Osaka sud. Già in treno sentivo che qualcosa non andava ma è stato solo verso le undici, una volta tornato in albergo, che mi sono reso conto che piedi e gambe non mi avrebbero sicuramente retto nei giorni a seguire.

Ho provato a massaggiarmi i piedi, mi sono fatto un’oretta nella vasca da bagno confidando nei poteri curativi dell’acqua bollente, ho guardato programmi musicali fino alle due di notte e poi ho provato a dormire.

Un bell'albergo nei pressi di Nanba

(continua…!)


[1] Da sinistra a destra incontriamo un Kannon a undici teste (十一面観音), un Monju (文殊), il Buddha centrale (attualmente identificato come Śakyamuni ma probabilmente concepito all’origine come Yakushi 薬師), un tozzo Yakushi di data leggermente più tarda e un piccolo Jizō (地蔵). Di fronte a loro, delle statue dei Dodici Generali Celesti datate al XIII secolo.

[2] Il Murōji è attualmente associato allo Shingon.

[3] Escludendo naturalmente il Murōji.

Gita in Giappone – Parte 1

Posted in Asia Orientale, Giappone, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , , , , , on 25 novembre 2011 by patatromb

Vivere in Corea è bello per tutta una serie di ragioni. La pizza coreana non è probabilmente una di queste, mentre lo è, se si escludono simpatici imprevisti come le nubi radioattive e il terrore radioattivo, la vicinanza con l’arcipelago giapponese e la conseguente economicità dei voli diretti verso lo stesso (per dire, a/r con 160€ tasse comprese).

L’anno scorso il mio dipartimento ha organizzato un viaggio di istruzione di cinque giorni proprio da quelle parti: un tour de force brutale al termine del quale mi ero ripromesso di tornare da solo quest’anno per vedere quello che volevo io come volevo io (in sostanza, basta “avete ventitre minuti per visitare il museo, sbrigatevi”).

Tanto ho detto tanto ho fatto che sabato 12 c.m., nel primo pomeriggio, ho davvero preso l’aereo e sono partito alla volta di Osaka. Il primo giorno non ho poi fatto molto: atterrato attorno alle 17, sono arrivato all’albergo dove avrei sostato per i primi tre giorni attorno alle 19. Situato nella parte centro-nord della città, nei pressi delle stazioni Umeda e JR Osaka (cioè in zona centralissima), il pregiatissimo Hotel Kansai è stato selezionato con cura da una lista di un solo albergo con stanze disponibili nei giorni che servivano a me, alla faccia della crisi turistica giapponese post-Fukushima. Posizionato in un’area ricca di divertimenti per grandi e piccini (con un leggero squilibrio a favore dei grandi, a giudicare dal negozio che sbuca dall’angolo in basso a sinistra della foto panoramica qua sotto), a quanto si dice è uno degli alberghi più economici della città, chissà come mai! (senza commentare, vi lascio ammirare le fotografie della stanza).

Di fronte al bellissimo Hotel Kansai

Di fronte al bellissimo Hotel Kansai

Dentro al bellissimo Hotel Kansai: il letto, il mobile e la finestra che si apre sulla finestra dell'edificio dirimpetto

Dentro al bellissimo Hotel Kansai: gli spaziosissimi servizi igienici

Dentro al bellissimo Hotel Kansai: il tv color 42'', una bottiglia di Coca Cola Zero vuota e degli indumenti

Dopo il check-in è iniziata la mia missione della serata: trovare denaro. Il fatto è che appena arrivato in Giappone avevo fatto una capatina a un ufficio di cambio, solo che la cifra ricevuta si era rivelata decisamente inferiore e alle mie aspettative e alle mie necessità. “Se ti servono soldi, vai al primo bancomat che ti capita sotto mano”, mi direte, ma non è così facile: in Giappone trovare un bancomat che accetti carte straniere può rivelarsi un’impresa più ardua che sentire il Trota dire qualcosa di intelligente/intellegibile: e in effetti così è stato.

Quest'anno ho fotografato tante stazioni ferroviarie

L'Hotel American, l'Hotel che è il più splendido di Osaka e dove si può evidentemente fare cose assai originali, non distante dall'Hotel Kansai

Ci sono, certo, i bancomat degli uffici postali che accettano qualsiasi carta estera ma nel weekend (ricordo che stiamo parlando di un sabato sera) chiudono così presto che non ho fatto in tempo a trovarne uno prima che fosse troppo tardi (inoltre il giorno dopo prevedevo di partire prima della loro riapertura). In sostanza, tra le 20.30 e le 23, con una breve sosta di venti minuti per mangiare, ho testato senza successo non meno di una quindicina di bancomat. Alle 23.15, quando avevo oramai perso ogni speranza e la disperazione si stava impadronendo di me, uno sportello Citybank imbucato non lontano dall’ingresso principale della stazione di Osaka è giunto in mio soccorso, dimostrandomi al contempo che, checché se ne dica, il denaro può benissimo fare la felicità.

Col soldo in tasca e il cuore finalmente leggero, me ne son tornato in albergo a dormire: il giorno dopo si andava lontano!

(continua più tardi…)

Kansong Art Museum

Posted in Arte, Asia Orientale, corea, Gite, Pubblica utilità with tags , , , , , , , , , , , on 3 novembre 2011 by patatromb

Ovvero, del come non organizzare una mostra. Se si parla di arte coreana, e in particolare di pittura di epoca Chosŏn, non si può trascurare il Kansong Art Museum (澗松美術館) di Seoul e della sua collezione, straordinaria per qualità e quantità.

Kansong Art Museum

Il Kansong tratta del primo museo privato della Corea moderna, fondato nel 1938 con il nome Bohwagak 葆華閣 dallo studioso e collezionista Chŏn Yŏngpil (1906-1962) che, negli anni trenta del XX secolo, raccolse una quantità impressionante di opere d’arte coreane allo scopo di evitare la loro dispersione all’estero (in particolare in Giappone, paese che all’epoca controllava politicamente la penisola coreana e che era avido di beni culturali locali). Nel 1966 il museo ha assunto il suo nome attuale, in memoria di Chŏn (il cui nome d’arte era, appunto, Kansong).

Busto di Chŏn Yŏngpil

La particolarità del museo è che, normalmente, non è aperto al pubblico: vengono infatti organizzate due sole mostre “tematiche” all’anno, una a maggio e una a ottobre, della durata di 15 giorni ciascuna. Ad esempio, dal 15 al 30 ottobre scorsi si è tenuta una mostra che per tema aveva “pittura di genere e di figura” (風俗人物).

All’inizio di questo intervento dicevo “come non organizzare una mostra”, vediamo dunque a cosa mi riferisco. Innanzitutto avrete notato che ho scritto “tematiche” virgolettato, questo perché la selezione e la disposizione delle opere è in realtà piuttosto libera, con lavori di artisti, soggetto e epoche completamente differenti esposti assieme con chissà quale logica. Ad esempio, il ritratto del letterato Kim Wonheng (金元行, 1702-1772), di autore e data ignoti ma per ovvi motivi realizzato non prima della seconda metà del XVIII secolo era accanto al dipinto noto col titolo di Kima kamhŭng (騎馬酣興, traducibile grossomodo come “Un’allegra cavalcata ubriaca”) di Yun Tusŏ (尹斗緖, 1668-1715), importante artista morto quando Kim Wonheng era ancora un ragazzino.

Ritratto di Kim Wonheng

L'allegra cavalcata!

L'allegra cavalcata!

 

Le opere, inoltre, sono esposte in delle ridicole teche di 30 o 40 anni fa, che cascano letteralmente a pezzi e il cui vetro ondulato distorce completamente l’aspetto del dipinto. A questo si aggiunge la totale assenza di dispositivi di protezione e conservazione delle opere: sottili e delicati pezzi di carta che a volte arrivano anche ad avere 600 anni sono assurdamente esposti alla luce solare, al calore e all’umidità, un orrore che nel XXI secolo trovo francamente incomprensibile.

"Monaco che si diverte osservando dipinti"

Questo per quanto riguarda quello che succede dentro. Perché fuori le cose non vanno certo meglio. Dato che è aperto per sole quattro settimane all’anno, nel periodo delle mostre la gente accorre al museo in numero insostenibile, creando così all’esterno dello stesso delle file impossibili da descrivere a parole; file che rendono insostenibile la vita di chi abita lì vicino e che, soprattutto, mettono a serio rischio la sicurezza e la salute di chi decide di mettersi pazientemente in coda. Qui di seguito inserisco quindi due video, da me girati quando sono andato a vedere la mostra domenica scorsa, assieme a una piccola mappa del percorso della fila: spero vi permetteranno di capire meglio di cosa sto parlando (sempre che abbiate pazienza di guardarveli dall’inizio alla fine…)

Sette ore ben spese?

Per la cronaca, sono stato in fila dalle 9.45 (il museo apre alle dieci) fino alle 16.45: sette orette esatte e posso dire di aver avuto fortuna, dato che dopo le 17 non sono più ammessi visitatori. Io per cause di forza maggiore sono andato nell’ultimo giorno della mostra e questo, in parte, spiega l’entità della fila, ma anche durante la settimana l’attesa media per entrare era di non meno di due ore.

Se fuori è un inferno dentro (siamo virtualmente rientrati!) le cose non vanno certo meglio: al di là di quanto ho già detto prima, l’area espositiva è minuscola, con gente che accalcata da tutte le parti, e avvicinarsi alle teche anche solo per pochi secondi è un’impresa. Se pure ci si riesce, poi, lo staff invita a “guardare i dipinti senza fermarsi perché la gente in fila aspetta”.

Una vista del pian terreno

Le opere esposte, va detto, sono senz’altro importanti e di altissimo livello; ma a meno che non siate dei veri patiti di arte dell’Asia Orientale o, in alternativa, dei masochisti, vi consiglierei di pensarci due volte prima di imbarcarvi in una fila eterna che si concluderà in (se va bene) 30 minuti scarsi di visita al museo.

Come cantava un grande artista qualche anno fa, tristezza a palate!

Una volta uscito dal museo mi son gustato una bevanda calda e graziosa